Julietta prima suora Samburu

Julietta prima suora Samburu

La vita della missione, i riti locali, l’esperienza della povertà. E l’incontro con tante donne coraggiose e resilienti: mons. Marco Prastaro, vescovo di Asti, racconta in un libro i suoi tredici anni da fidei donum in Kenya

 

Oggi partecipiamo a un evento storico per la nostra Chiesa: la professione religiosa della prima ragazza samburu. La nostra Julietta Roseline Lenguris emette i primi voti temporanei nella congregazione delle Suore di Maria Immacolata di Nyeri. Julietta ha dovuto percorrere un lungo cammino e superare grandi difficoltà per rispondere a quella chiamata del Signore che ha avvertito fin da quando era ragazzina.

Dopo oltre 60 anni di presenza della Chiesa in terra samburu, la prima ragazza samburu diventa suora. In una cultura in cui la donna conta poco ed ha senso solo nella misura in cui genera figli, una suora samburu rompe tutti gli schemi. Per gli anziani più legati alle tradizioni il fatto risulta difficilmente comprensibile: ogni ragazza significa una dote (7-8 vacche) che il padre e gli zii ricevono, e che va a rimpolpare il patrimonio della famiglia. Per suor Julietta il padre ha pagato la dote agli zii, in modo che nessuno protestasse di fronte alla sua scelta di restare nubile.

Quando Julietta, timorosa e tremante, comunicò la sua decisione al padre, un vecchio cristiano della prima generazione, la risposta che ricevette fu straordinaria nella sua semplicità: «Julietta, tu sei un dono che Dio mi ha fatto senza che glielo chiedessi. Se tu fossi morta, Dio ti avrebbe presa senza chiedermi niente. Ora tu, a suo nome mi chiedi di donarti a colui che non ha nessun obbligo di chiedere ciò che è suo; non posso che dire di sì per ricambiare anch’io, con il tuo dono, il suo amore».

Nel mese di maggio suor Julietta è venuta a casa per “farsi festeggiare”. In una chiesa gremita di fedeli, alla presenza del vescovo Virgilio Pante e di 15 sue consorelle, ha ripetuto i suoi voti, in modo che tutti potessero vedere e sentire cosa succede quando una ragazza decide di diventare suora. Dopo la lettura del Vangelo è stata invitata dalla sua superiora ad alzarsi in piedi e ad esprimere il suo desiderio di donarsi al Signore. Si è alzata in mezzo alle donne, lei vestita di grigio chiaro, le donne vestite di rosso ed adornate dalle mille collane di perline colorate. Con solennità si è portata davanti all’altare ed ha manifestato a tutti il suo desiderio. Dopo la vivace e profonda omelia del vescovo, Julietta si è nuovamente alzata. Il vescovo l’ha interrogata sulle sue intenzioni e poi, affiancata dalla maestra delle novizie, ha ripetuto la formula dei suoi voti. In mano teneva una candela accesa, immagine delle vergini sagge che attendono l’arrivo dello sposo, il Cristo risorto a cui si donano con tutte se stesse.

Quindi il vescovo le ha consegnato il crocifisso, costruito da qualche donna con un ritaglio di un contenitore di plastica e tante perline, per ricordarle che dovrà portare con gioia e pazienza quel “giogo leggero e soave” che ogni cristiano seguace del Signore prende su di sé. Infine, le sono stati consegnati gli statuti della congregazione.

A questo punto la celebrazione è spontaneamente uscita da qualsivoglia schema di ordine e di compostezza, fino allora seguiti, per esplodere in una gioia emotivamente intensa. È iniziato un incalzante canto samburu accompagnato da un forte battito di mani. Alcune donne si sono alzate e hanno vestito suor Julietta con i vestiti tipici delle donne samburu: due scialli colorati hanno ricoperto il vestito grigio, le sono stati messi alle caviglie due braccialetti, una moltitudine di collanine ha cinto il suo collo; un delicato collier, sempre di perline colorate, ha cinto la sua fronte sopra il velo da suora. Quindi tutte le sue consorelle, imitate da tante donne, si sono alzate e l’hanno abbracciata mentre il canto proseguiva nel suo ritmo gioioso accompagnato dal battito sempre più forte delle mani.

Alla fine della celebrazione suor Julietta è stata chiamata a dire alcune parole; quando ha iniziato a parlare in samburu, l’emozione ha toccato il suo culmine: la gente ha sgranato gli occhi e spalancato la bocca in un sorriso di gioia e stupore nel sentire finalmente una suora, anzi di più, una loro figlia suora, parlare del Signore e dei suoi doni usando la loro stessa lingua.

Nel corso della settimana successiva abbiamo avuto modo di far visita a tutte le comunità della parrocchia. In ogni posto abbiamo celebrato la Messa e, per l’occasione, suor Julietta ha predicato ovunque, naturalmente parlando samburu e non kiswahili come facciamo noi sacerdoti.

In ogni luogo è stata accolta con grande entusiasmo e calore. Per le nostre donne è stato un grande momento di orgoglio, probabilmente per qualcuna è risultato anche un momento di triste consapevolezza della propria situazione di sottomissione. Ovunque mi ha colpito l’attenzione degli sguardi sorridenti che seguivano e si bevevano tutte le parole di suor Julietta come nettare dolcissimo. Risaltava la libertà con cui le donne intervenivano a sottolineare alcuni argomenti che sosteneva; brillava la familiarità con cui si rapportavano con lei; mi lasciava stupito la semplicità di alcuni interventi: «Io ho molte figlie a casa, vieni e prendine alcune perché siano anche loro di Dio come te».

Spesso in auto viaggiavano con noi altre persone. Capitava frequentemente che fossero donne con i loro bambini. Osservavo come suor Julietta parlava con loro con quella complicità e comprensione possibile solo fra gli appartenenti allo stesso popolo. Ammiravo la dimestichezza con cui teneva in braccio i bambini, quella sicurezza propria che le donne di qui hanno perché imparano a farlo fin da piccole. Osservavo e pensavo ancora una volta a come la Chiesa, attraverso i suoi figli, si è fatta una con tutti i popoli della terra. E proprio come in questo farsi una con tutti, il Vangelo diventa comprensibile, parlato e vissuto da tutte le genti.

 

Storie d’Africa

Ilaria, Emily, Agata, Kaseni… Si intitola Dove Dio ha nome di donna. La mia missione tra i samburu del Kenya il libro appena pubblicato da Emi (pp. 118, euro 12) di cui proponiamo un estratto in queste pagine. L’autore, Marco Prastaro, vescovo di Asti dal 2018, ha vissuto 13 anni da missionario fidei donum a Lodokejek, nel Nord del Kenya. Terra di pastori nomadi, di siccità e scontri etnici, ma anche luogo dove Dio si mostra nella generosità di chi ha poco, nella bellezza del creato, in tante donne accoglienti e coraggiose, nonostante tutto.