Il missionario che chiamava fratelli i rapitori

Il missionario che chiamava fratelli i rapitori

Nella giornata in cui il Papa e l’imam di al Azhar chiamano gli uomini di tutto il mondo alla preghiera comune mettendo al centro anche nel tempo della pandemia la dimensione della fratellanza, proponiamo alcune parole che su questo tema così importante e impegnativo disse padre Giancarlo Bossi, missionario del Pime rapito nelle Filippine nel 2007 da un gruppo di fondamentalisti islamici

 

Oggi – nel cuore del Ramadan e proprio mentre il mondo intero fa i conti con la grande prova della pandemia – Papa Francesco e l’imam di al Azhar al Tayyeb invitano gli uomini di tutto il mondo (di qualsiasi appartenenza religiosa o anche non credenti) a vivere questa giornata nel digiuno e nella preghiera intorno al valore della fratellanza, posto un anno fa al centro del Documento sulla fratellanza universale per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato durante la storica visita di Papa Francesco ad Abu Dhabi. Per noi in Italia questo appuntamento viene a cadere in queste giornate avvelenate dalle polemiche intorno alla vicenda di Silvia Romano. Anche per questo vogliamo proporre in queste giornata un’altra grande testimonianza, quella di un uomo che nel 2007 visse anche lui l’esperienza di un rapimento ad opera di un gruppo di fondamentalisti islamici. Ma una volta liberato trovò la forza di chiamare comunque anche queste persone «fratelli». Quello che segue è un brano tratto dall’intervista che padre Giancarlo Bossi – rimasto per quaranta giorni nelle Filippine nelle mani delle milizie islamiche di Abu Sayyaf – rilasciò a Gerolamo Fazzini subito dopo la sua liberazione e che – apparsa allora su Mondo e Missione – compare nel libro «Rapito», la sua autobiografia pubblicata dall’editrice Emi. Fortemente provato da quell’esperienza – sarebbe morto poi nel 2012 – padre Bossi non rinunciava a parlare di fratellanza, anche in rapporto a chi aveva agito con violenza contro di lui. 

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Quale era stata, prima del sequestro, la tua personale relazione con i musulmani?

Sono arrivato a Payao nel 1987. In quel momento i musulmani stavano facendo letteralmente scappare via i cristiani da lì. Con l’arrivo dei fondamentalisti, le poche relazioni che c’erano con i musulmani sono finite.

Eppure tu non esiti, giustamente, a ripetere che l’unica strada è il dialogo. Come si costruisce un dialogo autentico?

Partendo dal rispetto reciproco. Io offro rispetto ai musulmani, ma lo esigo pure. Su questo non transigo. Ricordo che una volta ho avuto dei problemi con un musulmano che abitava nei pressi della nostra casa, perché la sua capra veniva nel nostro terreno a brucare i germogli. Ho avvisato il proprietario una, due, tre volte… Alla quarta «invasione» il Giancarlo non ci ha visto più e… zac, l’ha fatta sparire. A quel punto non è capitato più…

Rispetto, dunque, come base indispensabile per un dialogo vero…

Rispettare l’altro significa anche riconoscere la diversità. È una cosa da accettare: il musulmano è diverso, come lo è il cristiano. Ma se io rispetto te, vuol dire che ti accetto nella tua diversità. Punto e basta. Questa è la base del dialogo; se invece manca, avremo sempre un «dialogo del sospetto».

Appena dopo la tua liberazione, tornato a Payao, hai invitato la tua gente a continuare il dialogo con i musulmani. Perché?

Ho spiegato: chi mi ha rapito è semplicemente un criminale, non lo ha fatto in quanto musulmano. È sbagliata l’equazione musulmano-criminale. Lo stesso vale, a parti rovesciate, nel caso dei cristiani. Ci tenevo a tornare a Payao per dirlo chiaro. Perché il dialogo, dopo il rapimento, rischiava di interrompersi. La situazione è sempre sul filo del rasoio e basta poco per farla precipitare. Nel caso del mio rapimento non c’entravano questioni religiose ma solo questioni economiche. Punto e basta.

Tu hai detto di aver perdonato i tuoi rapitori…

Il sentimento di perdono è nato in me spontaneamente. Del resto, se non riesci a perdonare hai fallito nel tuo essere prete. A darmi la spinta è stata la prima riga del Padre nostro: se riusciamo a chiamare Dio «Padre», gli altri sono fratelli. E se non ci riconosciamo tali, facciamo come Caino e Abele. Considero i rapitori miei fratelli. La mia preghiera è che sappiano un giorno tornare a casa, sedersi a tavola con la loro famiglia, mangiare nella pace e nella tranquillità. L’ho detto anche a loro.

Come hanno reagito?

Si sono stupiti. Credo che non abbiano mai sentito parlare di fratellanza e il fatto che io pregassi per loro li colpiva. L’idea di perdono è qualcosa di grande che noi cristiani possiamo donare ai musulmani. Spesso loro sono prigionieri di logiche di vendetta. E la vendetta è l’inizio di una catena di male che si può interrompere solo con il perdono e riconoscendosi fratelli.

Sembra di sentire Annalena Tonelli, la dottoressa uccisa in Somalia nel 2003 da estremisti musulmani. In quello che possiamo considerare il suo testamento spirituale, scrive: «Ogni giorno al Tb Center noi ci adoperiamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare (…) Oh, il perdono, come è difficile il perdono! I miei musulmani fanno anche tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo per la loro vita».

Il perdono è profondamente cristiano, è al cuore della rivoluzione del Vangelo. Penso alla parabola del figliol prodigo: il sentirsi figli porta al riconoscersi fratelli e apre al perdono. Intendiamoci: nemmeno per noi cristiani perdonare è facile!

Perdonare è stato un modo per seminare?

Il Signore agirà come meglio crede: le sue vie sono infinite. Io, però, ai rapitori ho detto quello che mi veniva dal cuore: «Se non siamo fratelli, non ha senso pregare insieme. Se Dio è il Dio della pace, perché avete i fucili?». Credo che qualcosa abbiano recepito, perché quando si parlava di fratellanza dicevo loro che non avrei potuto avere come Dio uno che non vuole la pace.

Il dipartimento di Giustizia filippino voleva che denunciassi i rapitori, ma tu e il Pime vi siete opposti. Perché?

Come ha dichiarato ufficialmente padre Gianni Sandalo, il nostro superiore nelle Filippine, si è deciso di mantenere la stessa posizione già espressa in occasione del sequestro di padre Luciano Benedetti nel 1998. Anche quest’ultimo non denunciò i suoi rapitori perché si trattava di ragazzi che a quell’età non si rendevano nemmeno conto di quello che stavano facendo.

Una decisione del genere ha fatto, ovviamente, scalpore. Come si concilia il gesto del perdono con la giustizia?

Sono quasi trent’anni che sono prete e se non perdoni vuol dire che del tuo essere prete hai capito poco o niente. Uno dei rapitori mi ha chiesto: «Padre, se ci vede in giro cosa farà?». Io ho risposto: «Magari ti porterò a bere un caffè. Dopo di che andremo insieme alla polizia e io dirò: questo è uno di quelli che mi hanno rapito». Il perdono non esclude la giustizia, che è uguale per tutti. Io non ho denunciato nessuno, ma se mi facessero vedere le foto dei miei sequestratori e io li riconoscessi, li indicherei chiaramente.

Il tuo sequestro è stato un modo «imprevedibile» di continuare la tua missione o una forzata sospensione?

Il rapimento è parte della mia missione, non posso cancellarlo. Quanto accaduto mi ha precisato la chiamata a costruire un mondo in cui tutti siamo fratelli, pur nella diversità delle nostre fedi. Questa per me sta alla base della sfida di tornare a Mindanao e fare della parrocchia di Payao il simbolo di un dialogo possibile. Il prete è un ministro di riconciliazione e, da questo punto di vista, mi sento ricaricato. Non so se ho capito meglio i musulmani; sta di fatto che il dialogo con loro è passato anche attraverso l’esperienza del sequestro. Spiritualmente parlando, considero questa esperienza una grazia. Anche se – devo ammettere – è stata molto dura.