Erdoğan l’africano, da Silvia Romano alla Libia

Erdoğan l’africano, da Silvia Romano alla Libia

Il ruolo dei servizi turchi nella liberazione della giovane cooperante italiana ha messo sotto i riflettori il protagonismo del “Sultano” sul continente. Improntato, come di consueto, al pragmatismo e all’assenza di scrupoli

Il ruolo fondamentale dei servizi segreti turchi nella liberazione, in Somalia, della giovane cooperante italiana Silvia Romano è uno dei pochi elementi certi di una vicenda che ha ancora molte zone d’ombra. Ma che cosa ci fanno gli emissari di Ankara in questa disastrata nazione del Corno d’Africa, ostaggio dell’instabilità e flagellata dal terrorismo dei fondamentalisti di Al Shabab?
In realtà, l’attivismo africano del “sultano” Erdoğan è una strategia ormai consolidata: la sua “Open to Africa Policy”, volta a conquistare un nuovo mercato a sud del Mediterraneo, era stata varata già quindici anni fa ed è stata accompagnata dall’apertura di ambasciate in quasi tutti i Paesi del continente.

La velleità di ristabilire un’influenza su regioni un tempo nell’orbita ottomana ha portato, tra l’altro, alla firma di accordi di cooperazione con il Sudan, ma le attenzioni di Ankara si sono concentrate appunto sulla Somalia, con i suoi potenziali 10 miliardi di barili di petrolio e una posizione strategica fondamentale per l’accesso al Mar Rosso e al Golfo di Aden, snodo del commercio petrolifero tra i più importanti al mondo.
Dal 2011, quando di fronte alla grave carestia che aveva colpito la regione Erdoğan si era recato personalmente a Mogadiscio per offrire l’aiuto turco alla nazione musulmana “sorella”, nel Paese sono arrivati milioni di dollari per interventi umanitari, ma anche per rilanciare l’istruzione e le infrastrutture e riorganizzare l’esercito, mentre dal 2012 la Turkish Airlines vola regolarmente su Mogadiscio (oltre che su una cinquantina di altri aeroporti africani).

Se le relazioni con la Somalia sono oggi strettissime – con l’invasione dei prodotti turchi nei mercati locali, la gestione di porto e aeroporto della capitale ma anche la creazione della sua più grande base militare all’estero e il recentissimo accordo per l’esplorazione di pozzi petroliferi – Ankara si è intestata come propria zona d’influenza l’intero Corno d’Africa. E il suo protagonismo si è allargato ad altre zone del continente, con investimenti e aiuti umanitari, spesso cementati dal fattore religioso e suggellati da frequenti visite di Erdoğan sul suolo africano. All’inizio del 2018, al ritorno da un viaggio in Algeria, Mauritania, Senegal e Mali, su Twitter scrisse: “Vogliamo camminare con l’Africa”. In effetti, gli scambi commerciali con il continente sono passati dai 5,4 miliardi di dollari nel 2003 ai 26 miliardi nel 2019, con l’obiettivo di raggiungere i 50 miliardi entro il 2023.

Oggi, la Turchia è la seconda presenza in Africa dopo la Cina. Una presenza, tra l’altro, percepita come meno invasiva rispetto a quella di Pechino. I due attori, in realtà, sono anche partner localmente. Basti pensare che il grande piano infrastrutturale della Nuova via della Seta include un progetto per connettere Pechino all’Africa che vede proprio la Turchia come snodo centrale da cui, attraverso Siria e Palestina, si arriverebbe in Egitto.

Ma il contesto più strategico in cui Ankara è oggi in prima linea è senza dubbio quello libico, dove sostiene il premier del Governo di accordo nazionale di Tripoli, Fayez al-Sarraj, contro l’uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar. E, per farlo, si avvale non solo delle truppe regolari del suo esercito (il secondo della Nato), ma anche di mercenari e miliziani reclutati in Siria, spesso tra le file dei movimenti jihadisti. Una parabola parallela a quella (in senso inverso) incoraggiata pochi anni fa, quando combattenti islamisti anti-Gheddafi erano stati prelevati e mandati sul fronte siriano per dare man forte ai gruppi anti-Assad e dove continuano a fare il lavoro sporco contro i curdi nel nord del Paese.

Il rispetto dei diritti umani non è certo una priorità nemmeno in Libia. Un rapporto diffuso in questi giorni dall’organizzazione non profit Syrians for Truth & Justice denuncia, citando funti sul campo, la presenza di numerosi minorenni tra gli almeno duemila ribelli siriani oggi impegnati nel Paese nordafricano a fianco della Turchia.
Su questo, tuttavia, ben difficilmente sentiremo i nostri governanti alzare la voce, visto che, tecnicamente, in Libia l’Italia si trova sullo stesso fronte di Ankara. La quale, dopo il supporto nella vicenda della liberazione di Silvia Romano, potrà aspettarsi che l’Italia passi sopra a molte cose. Per esempio, l’interesse turco per lo sfruttamento dei pozzi antistanti le coste della Tripolitania, che va a tutto svantaggio del nostro Eni. E magari anche quello per i giacimenti al largo di Cipro, dove le navi militari di Ankara impediscono a Eni e alla francese Total di operare trivellazioni in zone a loro assegnate, rimettendo in discussione la questione delle acque territoriali.

Il memorandum d’intesa firmato lo scorso novembre a Istanbul da al-Sarraj, che ridisegna i confini marittimi tra i due Paesi (ignorando l’esistenza di Creta e Cipro) e prevede collaborazioni nello sfruttamento delle risorse, è solo l’ultimo segnale chiaro di come, nonostante le preoccupazioni di Egitto, Israele, Grecia ma anche dell’Unione Europea, il Sultano non abbia alcuna intenzione di ritirarsi dal Mediterraneo orientale. E, anzi, se ne stia imponendo nei fatti come uno degli attori protagonisti.