La nostra prima Pasqua di pace

La nostra prima Pasqua di pace

Una famiglia siriana profuga in Libano. Alcuni volontari italiani decisi ad aprire le porte. Poi, grazie ai Corridoi umanitari, l’incontro tra queste storie: oggi  Youssef, Mary e i loro due bimbi hanno iniziato una nuova vita

«Per la prima volta dopo anni, quando alla sera appoggio la testa sul cuscino riesco ad addormentarmi». Questa è la pace, per Youssef. Niente di straordinario, o forse sì, visto che è arrivata alla fine di una lunga odissea che ha portato lui e la sua famiglia dalla Siria in fiamme fino a una nuova vita in Italia, passando attraverso gli orrori della guerra, la fuga in Libano, la sopravvivenza alla giornata «sempre con l’incubo che, nel cuore della notte, qualcuno sarebbe venuto a bussare alla nostra porta per arrestarci».

La nuova casa di Youssef Arakil e di sua moglie Mary, con la piccola Jennifer e il fratellino Sarkis, è a Borgomanero, cittadina del Novarese che li ha accolti grazie alla determinazione di un gruppo di volontari stanchi di vedere in tv immagini di case bombardate e di profughi ammassati in mezzo al fango e di restare con le mani in mano. Una determinazione, rimasta salda anche in tempo di Covid, che con l’aiuto della rete dei Corridoi umanitari legata alla Comunità di Sant’Egidio ha rappresentato la salvezza per questi due genitori siriani, che si chiamano come la mamma e il papà di Gesù, il cui pensiero fisso era offrire un futuro ai propri figli.

«Ci siamo conosciuti quando la guerra era già in corso», racconta Mary, che ha 35 anni e, dopo la maturità e una scuola di specializzazione, ha insegnato a lungo arte ai bambini delle elementari, a Damasco. Il suo futuro marito, a quel tempo, era un giovane pieno di vita che cercava di accantonare i risparmi del suo lavoro da falegname sognando una famiglia. Youssef è un cristiano di origini armene. «I miei bisnonni fuggirono dall’Anatolia al tempo del genocidio, nel 1915, e trovarono rifugio ad Aleppo, dove, 38 anni fa, sono nato io», racconta. Certo non si immaginava che, un secolo dopo quella tragedia (la cui memoria si celebra proprio il 24 aprile), sarebbe toccato anche a lui abbandonare tutto per salvarsi la vita.

«Tanti nostri amici e parenti erano già scappati all’estero, soprattutto in Libano», spiega. «Tra questi c’era una cugina di Mary, sposata a un mio amico: furono loro a metterci in contatto tramite WhatsApp e noi, una chiamata dopo l’altra, ci legammo sempre più! Così decidemmo di incontrarci». Ma spostarsi da Aleppo a Damasco, un tragitto che normalmente richiedeva quattro ore di auto, in tempo di guerra si trasformava in un estenuante percorso a ostacoli tra i continui check point delle diverse fazioni in conflitto. Per non parlare dei rischi, «soprattutto le retate dell’esercito in cerca di uomini da mandare sotto le armi». Dopo un viaggio di undici ore, il giovane riuscì a raggiungere Mary a Damasco. «Chiesi la sua mano al padre, che me la concesse. Il 9 settembre del 2016 ci sposammo, già con l’idea di fuggire anche noi, appena possibile, in Libano».

Pochi mesi dopo, dunque, la neo famiglia Arakil lasciò la Siria per una nuova casa a Burj Hammoud, il grande e vivace quartiere armeno di Beirut. «Eravamo arrivati legalmente, ma trovare un lavoro, per un rifugiato, era molto difficile», racconta Youssef. «Dopo alcune occupazioni occasionali, riuscii ad aprire un piccolo forno, ma senza licenza». Nel frattempo, Mary era rimasta incinta e a novembre del 2017 nacque Jennifer.

«Un giorno, qualcuno fece una soffiata alle autorità, che non solo ci obbligarono a chiudere il forno ma ci diedero tre giorni per lasciare il Paese. Fummo obbligati a tornare a Damasco, dove trovammo una situazione peggiore di quella che avevamo lasciato». Come se non bastasse, dopo pochi mesi Youssef fu richiamato sotto le armi come riservista. Determinato a non arruolarsi, decise di tornare in Libano attraverso le montagne, dove però fu catturato sul confine dall’esercito libanese insieme ad altri fuggiaschi.

«Ci chiusero per tre giorni in una stanza lurida, poi ci rilasciarono, lì nei boschi. Io rimasi nascosto alcuni giorni e poi riuscii a tornare a Beirut clandestinamente. Lì conobbi un autista che accompagnava nel Paese i profughi siriani: lo pagai perché portasse da me mia moglie e mia figlia». A Homs, ormai un ammasso di macerie piena di pericoli a ogni angolo, il passeur caricò in auto Mary con la piccola Jennifer stretta al collo e, attraverso quella che è nota come “la strada dei fantasmi”, le riportò in Libano.

Per gli Arakil, di nuovo riuniti, iniziò un altro periodo di precarietà e paura: riuscivano a tirare avanti a malapena grazie a un lavoretto da cameriere per Youssef e agli aiuti mandati loro dai parenti fuggiti all’estero. «Eravamo in ritardo di un anno con l’affitto, non sapevamo più che cosa fare».

I due genitori non potevano certo sapere che, a tremila chilometri di distanza, altre famiglie – in Italia – si stavano interrogando su come reagire di fronte alle immagini delle migliaia di profughi in fuga dalla guerra rimasti bloccati alle porte dell’Europa. «In quel periodo si parlava molto di migranti, e lo slogan che andava per la maggiore era: “Aiutiamoli a casa loro!”», ricorda Lucia Zanettichini, di Borgoma­nero, attiva nel Centro missionario diocesano, allora guidato da don Giorgio Borroni che dirigeva anche la Caritas di Novara. «Ma molti di noi si chiedevano: “E chi una casa non ce l’ha più? Chi ha dovuto scappare dalla guerra?”». A dare la spinta decisiva fu una serata organizzata dalle parrocchie della zona: «Tra i relatori c’era Lucia Forlino, responsabile per la Caritas italiana dei Corridoi umanitari dal Medio Oriente.

Fu un incontro molto acceso, che stimolò il dibattito. Alla fine decidemmo di coinvolgere la Comunità di Sant’Egidio, già attiva in parrocchia, e formammo un gruppo di volontari per promuovere un progetto di accoglienza insieme all’Unità pastorale, al parroco di Borgoma­nero don Piero Cerutti e al Comune».

Furono in tanti, una sessantina di persone provenienti da contesti diversi, a decidere di dare una mano, come racconta Patrizia Ferro, della Comunità di Sant’Egidio di Novara: «Dall’inizio del progetto fino ad oggi c’è chi ha offerto tempo, chi sostegno economico, chi ha donato beni materiali». Persino una casa. «Grazie a una famiglia che ha messo a disposizione un appartamento sfitto, l’idea di accogliere a Borgomanero una coppia di profughi siriani con i loro figli ha preso forma», spiega Patrizia, testimone della vitalità della Comunità di Sant’Egidio novarese. «Il nostro impegno è all’insegna delle tre “p” di Papa Francesco: preghiera, poveri e pace. Ogni sera ci troviamo a pregare nella chiesa di Ognissanti, ci prendiamo cura di chi vive per la strada, degli anziani soli, dei migranti, dei bambini vulnerabili con la nostra Scuola della pace».

E poi, naturalmente, ci sono i Corridoi umanitari: progetto nazionale promosso con la Federa­zione delle Chiese evangeliche e la Cei. Un’idea provvidenziale per Sergio Vercelli, tra i primi promotori dell’iniziativa a Borgomanero: «Quando Mario Marazziti venne a Novara a presentare il suo libro in cui raccontava storie di accoglienza da un capo all’altro dell’Italia, io, che ero reduce da alcune esperienze molto forti nei campi profughi in Bosnia e in Libano, mi sono detto: “Ma se l’hanno fatto loro, perché non possiamo farlo anche noi?”».

I tempi erano maturi. Ma, quando tutto sembrava pronto, la scorsa primavera l’ombra nera del Covid-19 si abbattè sull’Italia. E anche sul Libano, dove la famiglia Arakil, al lato opposto della catena dell’accoglienza, aveva finalmente trovato una speranza proprio grazie all’incontro con la rete dei Corridoi umanitari.

Ricorda Youssef: «Un giovane che lavorava come traduttore per la Co­munità di Sant’Egidio in Libano ci mise in contatto con una volontaria italiana, che venne a trovarci a casa per vedere come vivevamo». All’operatrice fu subito chiara la gravità della situazione della famiglia, che nel frattempo si era allargata con la nascita del piccolo Sarkis (battezzato con il nome armeno di san Sergio). «Così, incontrammo finalmente Maria Quinto, responsabile dei Corridoi umanitari, che fece partire la pratica per preparare i nostri documenti. Ma poi arrivò il Coron­avirus».

La pandemia avrebbe messo a dura prova i piani di tutti i protagonisti di quest’avventura, dall’Italia al Libano. «Arrivò il lockdown, poi le restrizioni: i mesi passavano e il nostro gruppo rischiava di sfilacciarsi – raccontano i volontari italiani – ma abbiamo tenuto duro e non abbiamo mai perso di vista l’obiettivo».

A Beirut, da parte loro, gli Arakil facevano fronte alle ulteriori difficoltà economiche seguite alla pandemia. «Come se non bastasse, la terribile esplosione di agosto al porto di Beirut ci ha fatto rivivere l’incubo della guerra», raccontano. «Alla fine, però, la nostra resistenza è stata premiata». Lo scorso dicembre, infatti, Youssef, Mary e i loro due bimbi sono atterrati a Roma e l’8 gennaio sono finalmente entrati nella loro nuova casa, a Borgomanero.

«A darci il benvenuto c’erano alcuni volontari e anche il par­roco, che la domenica succes­siva ci ha presentati alla comunità durante la Messa». Youssef sospira. «Questa sarà la nostra prima Pasqua di pace dopo molti anni». Sarkis, che ha festeggiato in Italia il suo primo compleanno, si agita tra le braccia della mamma. Jennifer è contenta: presto comincerà l’asilo. Mamma e papà, da parte loro, già fanno progetti per questa nuova vita: imparare al più presto l’italiano e poi trovare un lavoro – «io so fare un po’ di tutto e cucino bene», assicura Youssef – per sdebitarsi con la comunità che ha aperto loro le braccia. «Un proverbio arabo dice: “Se il tuo amico è buono come il miele, non tenerlo tutto per te”. Non vogliamo approfittarci di questi amici che ci hanno permesso di ricominciare a vivere».