Emergenza Sudan

Emergenza Sudan

L’ennesimo conflitto scoppiato a metà aprile ha provocato moltissimi morti e costretto centinaia di migliaia di persone alla fuga, aggravando una situazione umanitaria già critica. Il Pime in prima linea per i profughi sudanesi in Ciad

Sembra che non ci sia alternativa alla guerra in Sudan. Anche se quella del conflitto non è una fatalità per questo Paese. È un’esigenza di chi continua a trarre vantaggio da una situazione di caos, violenza, mancanza di diritti e democrazia e tanta, tanta povertà.

L’ultimo atto di un copione che si ripete con poche variazioni è andato in scena lo scorso 15 aprile quando la capitale Khartoum è stata bersagliata dal fuoco incrociato dell’esercito governativo e delle Rapid Support Forces (Rsf). Il primo è guidato dall’attuale presidente del Consiglio sovrano che governa il Pae­se, il generale Abdel Fattah al Burhan; le seconde rispondono al suo vice, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti. Alleati nel colpo di Stato che portò alla deposizione, dopo trent’anni di regime, dell’ex presidente Omar al Bashir nel 2019 e, prima ancora, nell’intervento brutale nel conflitto in Darfur, negli scorsi mesi si sono trovati profondamente in disaccordo sulla prevista transizione democratica e sul passaggio di potere ai civili. Transizione voluta da al Burhan, ma osteggiata da Hemetti, che in passato è stato a capo delle famigerate milizie Janjaweed, responsabili delle peggiori atrocità in Darfur, e che oggi guida quella che ne è diventata in qualche modo l’evoluzione: le Rapid Support Forces. Questa milizia, composta da circa 60 mila uomini ben armati, sarebbe supportata dal Gruppo russo Wagner con cui si spartisce anche lo sfruttamento delle miniere d’oro sempre in Darfur. Non solo: le Rsf controllano importanti settori dell’economia del Paese e varie attività finanziarie, comprese banche e fondazioni. Ma questo vale anche per i vertici dell’esercito nazionale che continuano a tenere saldamente in mano i gangli vitali dell’economia.

In questo contesto, la transizione democratica pare interessasse unicamente alle diverse realtà della società civile – studenti, insegnanti, lavoratori, professionisti e attivisti per i diritti umani, ma anche associazioni e movimenti popolari – che avevano dato vita a imponenti manifestazioni nel dicembre 2022, brutalmente represse dalle forze dell’ordine. Anche perché un autentico Stato di diritto rischia di far saltare la rete di affari più o meno opachi su cui si regge il sistema di potere militare del Sudan.

E così si è arrivati a questo nuovo devastante conflitto, che ha costretto anche moltissimi stranieri a lasciare precipitosamente il Paese, come ci racconta una rappresentante di Ovci-La Nostra Famiglia, presso la cui sede si sono radunati gli italiani, prima di essere evacuati a Gibuti dall’aeroporto militare. A settimane di distanza – ci dice – la situazione è ancora molto precaria e pericolosa. Anche diversi missionari, che avevano deciso in un primo tempo di restare in Sudan, sono stati costretti a partire, spesso in maniera molto difficoltosa ed estremamente pericolosa.
Gli scontri, del resto, si sono ben presto diffusi dalla capitale Khartoum ad altre regioni del Paese. A El Obeid, pure la cattedrale e il presbiterio sono stati colpiti da proiettili di mortaio, che hanno distrutto le vetrate.

Ma è soprattutto la regione del Darfur a essere nuovamente colpita in modo devastante. Qui gran parte della popolazione continua a vivere in condizioni di grande precarietà a causa del terribile conflitto scoppiato esattamente vent’anni fa, nel 2003, che aveva fatto 300 mila morti e 2,2 milioni di sfollati, molti dei quali tuttora nei campi. Le atrocità commesse in particolare dalle milizie Janjaweed, scatenate e sostenute da Omar al Bashir, e guidate appunto dal comandante Hemetti, sono valse all’ex presidente l’accusa di crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio. Esattamente quello che si sta ripetendo oggi.

Il Paese, inoltre, sta attraversando una profonda crisi economica: inflazione alle stelle, innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità, mancanza di carburante e disoccupazione dilagante soprattutto tra i giovani che non hanno prospettive di futuro. Già lo scorso anno, il vescovo di El Obeid Yunan Tombe Trille, che è anche presidente della Conferenza episcopale di Sudan e Sud Sudan, denunciava una «situazione molto dura: stiamo sopravvivendo per miracolo. Tutto è molto caro, i trasporti, il cibo e la gente non ha pane. È insostenibile per la popolazione e gli aiuti della comunità internazionale arrivano solo ad alcuni».

Secondo il Programma alimentare mondiale (Pam), oggi, «la situazione umanitaria non fa che aggravarsi, con un costante aumento della fame. Un numero record di persone, circa un terzo della popolazione, soffriva già la fame in Sudan prima che scoppiasse l’attuale conflitto. La violenza in corso ha il potenziale per far precipitare nella fame milioni di persone in più».

È una prospettiva che riguarda in prima istanza le centinaia di migliaia di persone che sono state costrette a lasciare le loro case e che sono andate ad aumentare il numero già elevatissimo di sfollati interni: 3,7 milioni di persone. Dopo il primo mese di conflitto, circa 200 mila persone che avevano trovato rifugio in Sudan negli anni passati, in fuga dai Paesi limitrofi interessati a loro volta da violenza e instabilità, hanno fatto precipitosamente ritorno nei luoghi d’origine. Tra questi, moltissimi sud sudanesi che vivevano da molto tempo al Nord e che ora sono rientratati in Sud Sudan. A un mese dell’inizio del conflitto erano oltre 50 mila: una storia che si ripete al contrario.

Anche in Ciad, dove erano già presenti moltissimi profughi dal Darfur, continuano ad arrivare ogni giorno migliaia di persone in fuga. A metà maggio, secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), erano circa 60 mila quelli che avevano varcato la frontiera. «Quasi il 90 per cento è composto da minori e donne, tra queste molte di loro sono incinte. Un quinto dei bambini tra i 6 e i 9 mesi sottoposti a screening è risultato gravemente malnutrito. La metà delle persone arrivate ha familiari ancora in Sudan con cui vorrebbe ricongiungersi in Ciad. Alcuni uomini sono rimasti indietro al fine di difendere le proprietà».

«Le persone che abbiamo incontrato al confine – testimonia fratel Fabio Mussi, missionario del Pime in Ciad – ci hanno raccontato di violenze terribili. Sono scappate senza niente e vivono accampate sotto qualche arbusto o una misera tenda, in attesa di essere ricollocate nei campi a una trentina di chilometri dal confine. Sono soprattutto donne e bambini e sono terrorizzati. Raccontano di bande armate che uccidono senza pietà e fanno razzia di tutto». Fratel Mussi, che è responsabile dei progetti sociali della diocesi di Mongo, si è già attivato per portare aiuti di emergenza, in particolare cibo, acqua e beni di prima necessità. Nelle scorse settimane, sono partiti anche due camion per effettuare delle perforazioni di pozzi. «Abbiamo creato un’équipe di Caritas che starà sul posto coadiuvata da alcuni volontari cristiani presenti in quelle zone, che sono molto remote e difficilmente raggiungibili. Dobbiamo intervenire al più presto perché con la stagione delle piogge diventerà praticamente impossibile arrivare sin lì».

Per garantire un intervento tempestivo, si è mobilitata anche la Fondazione Pime di Milano, che ha immediatamente attivato una raccolta fondi per far arrivare, attraverso fratel Mussi e la Chiesa del Ciad, un aiuto a migliaia di persone che hanno perso tutto.


COME AIUTARE

La Fondazione Pime di Milano ha attivato il Fondo S148 Emergenza profughi Sudan per venire incontro ai bisogni primari di cibo, acqua, prodotti per l’igiene, vestiti e tende per i profughi sudanesi in Ciad, in particolare nelle province di Ouadi Fira, Sila e Ouaddai, che fanno parte del vicariato di Mongo, dove operano anche i missionari del Pime.

Per aiutare: dona.centropime.org/emergenzaprofughiSudan/
Info: Area sostegno missioni (tel. 02.438201)