Etiopia: guerra finita. Anzi no

Etiopia: guerra finita. Anzi no

Dopo tre settimane di combattimenti, il premier etiope Abyi Ahmed dichiara la presa di Makallè e il controllo della regione del Tigray. Ma i leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray si dicono pronti a «combattere gli invasori sino all’ultimo». Si rischia una guerriglia senza fine

La guerra in Etiopia è finita. Anzi, no. Mentre il premier etiope Abiy Ahmed annunciava, sabato 28 novembre, che l’«offensiva finale» si era conclusa con la presa di Macallè, capoluogo del Tigray, i leader del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Flpt) dichiaravano di aver riconquistato Axum (capitale dell’antico monimo regno e tuttora importante luogo sacro per i cristiani etiopi), e di aver abbattuto un caccia governativo, facendo prigioniero il pilota. Nel frattempo, nella notte tra sabato e domenica, si segnalavano sei forti esplosioni a L’Asmara, capitale dell’Eritrea, probabilmente dovute a missili sparati dal Fronte tigrino. Cosa che era già avvenuta il 14 novembre, quando era stato preso di mira l’aeroporto. «Anche le forze etiopi lo stanno utilizzando» per i raid contro la regione del Tigray, pertanto si tratta di un «obiettivo legittimo», ha dichiarato all’agenzia Afp Debretsion Gebremichael, presidente del Tigray dal 2018, e precedentemente ex guerrigliero al tempo della lotta contro il dittatore Menghistu, e successivamente ministro nei governi di Meles Zenawi e Hailemariam Desalegn.

L’Eritrea – attualmente alleata con Abyi – per il momento non conferma e non reagisce. Ma quanto successo nei giorni scorsi, così come tutto il resto, è difficile da verificare dal momento che questo conflitto fratricida, scoppiato il 4 novembre nel nord dell’Etiopia, continua a essere più “blindato” che mai: niente accesso alla regione per giornalisti, osservatori indipendenti e neppure operatori umanitari. Un conflitto che si combatte sul terreno e a colpi di propaganda, tra il governo federale e l’Flpt, per ripristinare «lo Stato di diritto e il rispetto della Costituzione», secondo il premier Abyi; «per la sopravvivenza del popolo tigrino» secondo la leadership del Fronte. In entrambi i casi, si tratta di un conflitto per il controllo del potere. Sino a due anni fa, infatti – cioè sino all’avvento di Abyi – l’Fplt controllava di fatto tutto il Paese. E ora si trova messo in un angolo.

La massiccia offensiva militare, lanciata dall’esercito di Addis Abeba dopo che i miliziani dell’Flpt avevano attaccato una caserma federale, ha permesso al governo federale di riprendere il controllo della regione. «Siamo riusciti ad entrare nella città di Macallè senza prendere di mira civili innocenti», ha dichiarato il premier Abiy in un comunicato diffuso dalla televisione di stato etiope Ebc. Intanto, però, il governo del Tigray parlava di un attacco al centro della città – che ha oltre 500 mila abitanti – con «armi pesanti e artiglieria». «Lo stato regionale del Tigrè invita tutti coloro che hanno la coscienza pulita, inclusa la comunità internazionale, a condannare i bombardamenti di artiglieria ed aerei e i massacri che vengono commessi», si legge nel comunicato del governo locale.

«Il nostro obiettivo – ha aggiunto Abyi – sarà ora quello di ricostruire la regione e fornire assistenza umanitaria». Intanto, però, la caccia ai leader tigrini non è finita, come conferma lo stesso premier, secondo cui «la polizia federale sta arrestando la cricca criminale del Fronte popolare per la liberazione del Tigray». Quest’ultimo, tuttavia, non sembra disposto ad arrendersi. Anzi. Parlando della «brutalità delle forze governative, Gebremichael ha dichiarato che «questo può solo far aumentare la nostra determinazione a combattere questi invasori fino all’ultimo. Si tratta di difendere il nostro diritto all’autodeterminazione».

Il rischio è che l’Fplt torni ai vecchi metodi di guerriglia, in cui si era distinto durante i 17 anni di lotta contro Menghistu. Trascinando questo conflitto per un tempo indefinito. E provocando ulteriori sofferenze alla popolazione civile.

Stragi e atrocità

Più di tre settimane di aspri combattimenti avrebbero provocato migliaia di morti «tra cui molti civili e forze di sicurezza», secondo l’ong International Crisis Group, il cui analista senior è stato espulso dall’Etiopia il 21 novembre senza formali spiegazioni.

Ancora poco chiara è la dinamica della strage che sarebbe stata commessa tra Mai Kadra e Humera il 10 novembre. Alcune testimonianze, raccolte da Amnesty International, parlano di oltre 600 morti, la maggior parte contadini di etnia amhara, massacrati con machete e armi da fuoco. Si tratterebbe di una sorta di rappresaglia dei miliziani tigrini per “vendicare” le violenze dei militari contro la loro popolazione. Quel che è certo è che sono state scoperte 70 sepolture fresche, fra cui anche alcune fosse comuni.

Per il resto, a causa del totale oscuramento delle comunicazioni, filtrano pochissime notizie verificabili. Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa, varie ambulanze avrebbero portato «persone ferite e decedute» all’ospedale di riferimento di Ayder a Macallè, dove «l’80% dei pazienti ha ferite da trauma». Tutti i servizi sono stati praticamente sospesi «in modo che il personale e le risorse limitati potessero essere dedicati alle cure mediche di emergenza». La struttura, tuttavia, si trova al limite delle sue capacità, per mancanza di approvvigionamento. In un tweet del 29 novembre, la responsabile della croce Rossa in Etiopia, Maria Soledad, ha lanciato l’allarme: «L’ospedale va verso una pericolosa carenza di forniture mediche: antibiotici, anticoagulanti, antidolorifici e persino guanti».

Isolamento ed emergenza umanitaria

Intanto, la situazione umanitaria è sempre più critica. Oltre 43 mila persone sono fuggite oltre il confine con il Sudan e molte di più sono sfollate all’interno della regione del Tigray, senza vie di fuga neppure verso l’Eritrea. Nel Tigray, inoltre, sono presenti quattro campi con 96 mila rifugiati eritrei bisognosi di aiuti alimentari. La situazione potrebbe precipitare anche per il venir meno dei raccolti a causa del conflitto, in un periodo in cui la produzione agricola è già stata fortemente compromessa dall’invasione di locuste negli scorsi mesi e dalle misure di contenimento della pandemia di Coronavirus. Intanto manca tutto: cibo, acqua, corrente elettrica, cure e medicinali... E le organizzazioni umanitarie continuano a non avere accesso alla regione, che è “blindata” anche per quanto riguarda trasporti e telecomunicazioni. Le conseguenze sulla popolazione sono devastanti anche perché il conflitto ha fatto ulteriormente precipitare una situazione già precaria a causa delle croniche condizioni di insicurezza alimentare, dello scarso accesso alle risorse sanitarie, oltre che delle ricorrenti carestie che si sono succedute negli ultimi quarant’anni.

 L’appello dei ricercatori italiani

Sono molti gli appelli che sono stati lanciati in queste settimane da varie organizzazioni internazionali e umanitarie (tra cui quello dell’Agenzia Habescia) Tra questi, anche quello di più di 130 ricercatori italiani, che lavorano o hanno lavorato in Etiopia, e che chiedono al governo italiano di prendere una posizione chiara e di «unirsi agli sforzi di quanti stanno lavorando per un immediato cessate-il-fuoco e per l’apertura di corridoi umanitari per assistere la popolazione civile in Tigray». «Nell’immediato – si legge nel documento – chiediamo al governo italiano di intercedere affinché siano ripristinati gli aiuti alimentari, le telecomunicazioni, la fornitura di acqua, elettricità, carburante e medicinali, il pieno funzionamento delle banche, sia permesso l’accesso ai media garantendo libertà di informazione e sia consentita l’apertura di un corridoio umanitario attraverso cui le organizzazioni non governative internazionali possano assistere i civili colpiti, come peraltro richiesto dalle Nazioni Unite il 20 novembre».