Sudafrica, il fronte africano del Covid-19

Sudafrica, il fronte africano del Covid-19

Nell’ultima settimana una media di 500 morti al giorno, livello mai toccato prima: preoccupa la variante sudafricana del Coronavirus. La testimonianza di suor Giovanna Pesenti: «Il governo ha alzato il livello di emergenza, ma il contagio si diffonde velocemente. E si intreccia a tante altre contraddizioni di questo Paese»

 

È il Paese dell’Africa con il maggior numero di contagi e decessi. E in queste ultime settimane, con la scoperta di una variante locale del virus, le preoccupazioni sono fortemente aumentate. In Sudafrica si registrano oltre 1 milione di positivi al Covid-19 e più di 32 mila morti (in media circa 500 al giorno nell’ultima settimana, un livello mai toccato prima) con casi in crescita anche nei Paesi vicini: Namibia, Botswana, Zimbabwe, Zambia.

«Mi trovo a Boksburg West, alle porte di Johannesburg, in una comunità di otto sorelle, cinque delle quali hanno contratto il virus – racconta suor Giovanna Pesenti, 78 anni, salesiana, in Sudafrica dal 1976 -. Il Governo ha stabilito il livello d’emergenza tre su cinque, che rimarrà in vigore fino al 15 gennaio. Le mascherine sono obbligatorie, scuole e chiese rimangono chiuse, gli assembramenti vengono disincentivati e i negozi sono aperti solo in determinate fasce orarie, con l’obbligo, per chi vende alcolici, di non lavorare nel weekend. Il contagio, però, si diffonde velocemente».

Dal 30 dicembre, si registrano oltre 10 mila nuove positività al giorno. «Non tutti rispettano le regole – rileva suor Giovanna, bergamasca di Brembate, amministratrice della provincia salesiana dell’Africa meridionale (13 comunità tra Sudafrica, Lesotho e Zambia) -. Noto uno scarso senso civico: “Quello che è mio è mio, il resto non mi riguarda”, si pensa. Le proprietà private sono ben tenute, mentre i luoghi pubblici sono pieni di sporcizia. Anche le infrastrutture, che trent’anni fa erano all’avanguardia, oggi necessitano di manutenzione. La corruzione esiste ad ogni livello. E la lotta tra neri e bianchi non finirà mai».

Per oltre quarant’anni, dal 1948 al 1991, il Paese ha conosciuto la politica della segregazione razziale. «II post apartheid è complicato. C’è tanta violenza. I rapporti tra i gruppi etnici sono difficili. E non solo tra bianchi e neri. Ma anche tra le diverse minoranze di africani, emigrati dai Paesi confinanti. I neri del Sudafrica non accettano quelli del Mozambico, del Malawi o dello Zimbabwe. Ormai è una nazione arcobaleno solo per definizione, la realtà è più complessa. I bianchi sono una minoranza, vista male dal resto della popolazione. Quanto ai neri, c’è chi vive ancora nella povertà e chi, invece, ha migliorato la propria condizione rispetto all’epoca dell’apartheid».

Negli anni più caldi suor Giovanna operava alle porte di Città del Capo. «Lavoravo con i mulatti, i coloured, ma anche con gli emigrati italiani, molti dei quali ex prigionieri di guerra. Ricordo gli anni ’90 come un periodo di apertura. Dalla scarcerazione di Mandela ai Mondiali di rugby: nel Paese regnava l’euforia. Poi, quando Mandela ha lasciato la presidenza, la situazione è peggiorata gradualmente. Era un leader, e ha sofferto per la sua leadership. Gli altri politici no. Hanno ereditato qualcosa di più grande di loro. Ed oggi c’è la necessità di formare i cittadini del futuro».

L’impegno sul fronte dell’istruzione è una costante delle missionarie salesiane: «Lavoriamo nelle baraccopoli, quelle che i turisti difficilmente vedono. Le nostra scuole non sono riconosciute dal Governo perché informali. Ospitiamo studenti di varie nazionalità, con classi dalla scuola dell’infanzia fino alle superiori. Diamo particolare rilevanza alla figura della donna: molte sono sole, con a carico figli da mantenere. Facciamo lo stesso in Zambia e Lesotho, cercando di favorire l’emancipazione femminile».

Nonostante il Sudafrica abbia una delle economie più sviluppate del continente, la missione nel Paese rimane una sfida. «Il Governo è laico e socialista. C’è da lavorare su vari fronti. Ma io sono innamorata di questo Paese e della sua gente che, al di là della religione d’appartenenza, vive una fede profonda, tanto da accettare la propria condizione di povertà. Mi piace pensare all’immagine di Gesù che cammina sulle acque. I discepoli sono spaventati. “Sono io, non abbiate paura”, dice loro. Abbiamo vissuto un anno tormentato e il 2021 continua ad essere complicato. Gesù, però, è sulla barca con noi. È sulla barca della mia vita. E mi aiuta ad andare avanti».