La lunga strage dei sacerdoti

La lunga strage dei sacerdoti

Dal 1990, sono 45 i preti uccisi nel cattolico Messico. Perché stando accanto alla gente sanno troppe cose sui traffici dei “narcos”

 

L’ultimo l’hanno trovato cadavere sul ciglio della strada il 27 marzo: un altro prete ucciso, stavolta nella piccolissima prelatura di El Nayar. Anche questa diocesi di frontiera dello Stato del Nayarit – dove i sacerdoti tra preti diocesani e religiosi sono appena venticinque – ha pianto la morte di padre Felipe Altamirano Carrillo, vittima di un agguato mentre si trovava in una delle comunità della città di Jesús María. Prima di lui, in questi primi mesi del 2017, era già capitato a padre Joaquín Hernández Sifuentes, rapito e ritrovato ucciso il 3 gennaio nella diocesi di Saltillo. Ma sono ormai parecchi anni che – nelle statistiche della Chiesa cattolica – il Messico balza all’occhio come il luogo dove è più pericoloso essere sacerdoti.

Avete letto bene: nel mondo il posto dove capita più spesso che un prete venga ucciso non è un Paese dove spadroneggiano i fondamentalisti islamici, ma una terra profondamente cattolica dove le trame di morte hanno il volto dei traffici criminali dei narcos, coperti da politici corrotti. Le statistiche dicono che dal 1990 a oggi sono stati ben 45 i sacerdoti assassinati in Messico; senza contare che, come loro, sono stati uccisi anche tanti altri catechisti o operatori pastorali di cui è più difficile tenere un conto aggiornato. Del resto, il Messico è un Paese nel quale i dati aggiornati al 31 dicembre 2015 parlavano di 26.898 desaparecidos ufficiali, persone cioè che le stesse autorità riconoscono essere scomparse nel nulla, con ogni probabilità tolte di mezzo da bande criminali.

I preti uccisi sono martiri a cui si fa fatica a dare un volto: il più delle volte la notizia dei loro omicidi si limita all’indicazione di un nome o poco più. Nel 2016 – tra il 18 e il 20 settembre – è capitato che tre preti siano stati assassinati addirittura nel giro di poche ore: padre José Alfredo López Guillén, nel Michoacán, e i padri Alejo Jiménez e José Alfredo Suárez, nello Stato di Veracruz. Ma solo per questa concomitanza particolarmente macabra hanno fatto più notizia degli altri.

Tra i preti uccisi in Messico non è mancato il volto di un missionario africano, padre John Ssenyondo, comboniano ugandese. Venne rapito da alcuni uomini armati il 30 aprile 2014, dopo aver celebrato Messa nella comunità indigena di Santa Cruz, a Chilapa de Álvarez, nello Stato del Guerrero. Dopo aver atteso invano sue notizie i membri della sua comunità hanno cominciato a cercarlo sotto terra; e il 29 ottobre l’hanno trovato in una fossa comune in cui era stato gettato insieme ad altri tredici corpi. Pare abbia pagato con la vita una presa di distanze decisa da un gruppo di trafficanti locali.

«La violenza e l’insicurezza sono arrivate a livelli tali che tutti siamo vulnerabili – commentava padre Jesús Mendoza Zaragoza, parroco ad Acapulco, impegnato nella pastorale sociale, intervistato dall’agenzia Sir -. La Chiesa cattolica ha una presenza capillare nel Paese e noi sacerdoti abbiamo una grande rilevanza sociale. Per questo motivo, quanto facciamo o quanto diciamo può dare fastidio ai delinquenti o alle organizzazioni mafiose. Tutti i sacerdoti assassinati stavano servendo le loro parrocchie stando a contatto con la gente. Sanno cose e possono essere considerati delle minacce per i criminali».

C’è anche chi riesce a scampare alla morte, ma solo dopo aver subito violenze gravissime. Ne sa qualcosa padre José Luis Sánchez Ruiz, della diocesi di San Andres Tuxtla, nello Stato di Veracruz; un prete che aveva denunciato le azioni corrotte dell’ex governatore locale Javier Duarte, oggi latitante. Nel settembre scorso, padre Luis è stato rapito e poi rilasciato con evidenti segni di tortura. Nel suo caso appare più che probabile il legame tra le denunce e il trattamento subito; ma è capitato anche a preti molto meno in vista, che probabilmente si erano mossi con discrezione per difendere qualche parrocchiano.

E la Chiesa cattolica messicana come vive tutto questo? In occasione dell’uccisione di padre Altamirano Carrillo, la Conferenza episcopale ha diffuso un messaggio in cui ha espresso il suo dolore per questi atti di criminalità. «Gesù Cristo ci dia la forza di lottare per la costruzione di un mondo riconciliato e pacifico, giusto e fraterno – ha scritto il presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Francisco Robles Ortega -. Con il suo sacerdozio, padre Felipe ha incarnato queste certezze che ci dà la fede».

Eppure la sensazione è che intorno a queste morti ci sia poca voglia di parlare. Lo denuncia senza mezzi termini Luis Badilla, giornalista cileno per tanti anni alla Radio Vaticana e oggi direttore del sito internet Il Sismografo, una delle più complete fonti di informazione sulla vita della Chiesa nel mondo. «In Messico la parola d’ordine sembra “sdrammatizzare” – sostiene Badilla -; con tecniche mediatiche omertose e denigratorie, si tramutano questi crimini del narcotraffico in “tristi e deplorevoli” fatti di cronaca nera. Nel frattempo, ovviamente, il crimine organizzato tace: non rivendica mai nulla, fa finta di essere estraneo ai fatti, o peggio ancora, dove può fa circolare voci scandalistiche contro gli uccisi, appoggiandosi su quella parte di tessuto sociale inquinato e connivente con il narcotraffico. In diversi casi si sono visti numerosi “testimoni” fare dichiarazioni sullo scomparso col chiaro scopo di denigrare la sua figura, quasi a voler sentenziare: se lo hanno sequestrato ci sarà un motivo…».

Badilla – in una nota sul Sismografo – ha accostato la sorte di questi sacerdoti messicani uccisi e calunniati a un ricordo preciso su Oscar Romero pronunciato da Papa Francesco durante un’omelia a Casa Santa Marta. «Il suo martirio non avvenne solo prima e al momento della sua morte – disse in quell’occasione il Papa – ma continuò anche dopo. Perché una volta morto fu diffamato, calunniato, infangato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Solo Dio sa quante volte persone che hanno già dato la loro vita continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esista al mondo: la lingua».