La pena di morte imposta ai Navajo

La pena di morte imposta ai Navajo

Negli Stati Uniti è fissata per mercoledì 26 in una prigione federale dell’Indiana l’esecuzione della pena di morte per Lezmond Mitchell, un nativo colpevole di un duplice omicidio avvenuto in una riserva dei Navajo nel 2001. Ma la tribù – a cui appartenevano anche le vittime – si batte per fermare questo esito: “Per noi la vita umana è sacra e non è lecito uccidere per vendetta”. E la famiglia delle vittime è d’accordo

 

Si può arrivare a imporre la pena di morte a un popolo che per cultura e visione del mondo la ritiene inaccettabile? E’ quanto potrebbe accadere nelle prossime ore negli Stati Uniti se il presidente Donald Trump o la Corte Suprema a Washington non accoglieranno un appello dell’ultima ora presentato dalla nazione dei Navajo, uno dei maggiori gruppi di nativi americani.

Per il pomeriggio di mercoledì 26 agosto, nel Federal Correctional Complex di Terre Haute, nello Stato dell’Indiana, è fissata infatti l’esecuzione capitale di Lezmond Mitchell, che diventerebbe il primo nativo ad essere sottoposto alla pena di morte dalla sua reintroduzione negli Stati Uniti. Mitchell – che oggi ha 38 anni – nell’ottobre 2001 all’interno di una riserva dei Navajo ha ucciso orrendamente la sessantatreenne Alyce Slim e la nipote di 9 anni Tiffany Lee, anche loro appartenenti alla comunità nativa, durante un furto d’auto.

La gravità del delitto ha portato la giustizia federale ad avocare a sé la giurisdizione, togliendola al sistema giudiziario proprio dei nativi; contrariamente a quanto avvenuto finora, però, la sentenza del 2003 non ha tenuto conto della contrarietà dei Navajo alla pena di morte. Poi – nell’autunno scorso – è arrivata anche la scelta dell’amministrazione Trump di riprendere dopo due decenni le esecuzioni capitali decretate dalle corti federali. Così Mitchell potrebbe diventare il primo figlio del popolo navajo messo a morte da un tribunale americano dall’istituzione nel 1868 della loro grande riserva autonoma a cavallo tra l’Arizona, il New Mexico e lo Utah.

Anche per questo i Navajo si stanno battendo con forza contro l’esecuzione capitale di Mitchell, giudicata l’ennesima imposizione coloniale di Washington. In una lettera inviata a Trump il presidente della nazione Navajo, Jonhatan Nez, e il suo vice Myron Lizer ricordano che nella cultura e nella spiritualità di questo popolo nativo la vita di ogni persona è sacra e non è ammesso l’omicidio per vendetta. Chiedono la commutazione della pena di morte nel carcere a vita e fanno notare che la condanna a morte è potuta avvenire solo grazie un artificio giuridico: al posto dell’accusa per omicidio – per la quale è previsto il rispetto della volontà delle comunità indigene riguardo alla pena – Mitchell è stato chiamato in causa per furto d’auto con omicidio, un reato che non è espressamente citato nelle leggi che regolano i rapporti tra le corti dei nativi e il sistema giudiziario federale. Va aggiunto che durante il processo la stessa signora Marlene Slim – rispettivamente figlia e madre delle due persone uccise – si era espressa contro la pena di morte, chiedendo il carcere a vita per l’omicida.

Ci sarebbero tutte le ragioni, dunque, per accogliere la richiesta dei Navajo. Eppure finora tutti i ricorsi sono stati rigettati. E la questione è ora nelle mani del presidente che punta tutto sullo solgan “law and order“.