Adottare il futuro

Adottare il futuro

Cinquant’anni fa il Pime inventò il Sostegno a distanza, grazie al quale decine di migliaia di ragazzi continuano ad avere una chance per sé e per la loro comunità. Le voci dei giovani che ce l’hanno fatta

L’immagine di un medico con indosso un bel camice bianco, stampata su un libro delle scuole elementari: il sogno di Malafi – diventare un dottore e curare la gente – è nato così, guardando quella figura che campeggiava sulla pagina lucida. Ma la sagoma che attirò la sua attenzione di ragazzino Malafi non l’avrebbe mai vista, né, anni dopo, avrebbe potuto intraprendere gli studi in Medicina, se non avesse incontrato qualcuno che, quando aveva già dodici anni,  decise di aprirgli per la prima volta le porte di un’aula scolastica.

«Sono nato a Cutia, un piccolo villaggio della Guinea Bissau, primo di otto figli», racconta Malafi Quequtu Mané, che oggi ha 39 anni. «I miei genitori erano agricoltori e non potevano pagare i miei studi. Io li aiutavo nei campi e mi prendevo cura dei miei fratelli. Finché, attraverso i missionari del Pime che operavano a Mansoa, arrivò la svolta». Padre Davide Sciocco spiegò al giovanissimo parrocchiano che una famiglia di un Paese lontano, l’Italia, aveva deciso di “adottarlo” a distanza, e che da allora avrebbe potuto frequentare la scuola. «Iniziai così a studiare molto, facendo nel frattempo dei lavoretti per contribuire alle spese. Il mio sogno di diventare medico si chiariva e rafforzava sempre più. Andai così a Bissau e poi a Bafatá, per frequentare la facoltà di Medicina: non è stato facile, ma grazie a Dio e al sostegno a distanza ce l’ho fatta».immagine di un medico con indosso un bel camice bianco, stampata su un libro delle scuole elementari: il sogno di Malafi – diventare un dottore e curare la gente – è nato così, guardando quella figura che campeggiava sulla pagina lucida. Ma la sagoma che attirò la sua attenzione di ragazzino Malafi non l’avrebbe mai vista, né, anni dopo, avrebbe potuto intraprendere gli studi in Medicina, se non avesse incontrato qualcuno che, quando aveva già dodici anni,  decise di aprirgli per la prima volta le porte di un’aula scolastica.

Oggi Malafi indossa ogni giorno il camice bianco che lo aveva ispirato da bambino, lavora in una clinica, in ostetricia e ginecologia, e si occupa di pazienti sieropositivi. Ma questo risultato non gli bastava. «Negli anni dell’università pensavo sempre tra me: “Se un giorno riuscirò a diventare medico, metterò da parte il mio stipendio per cinque anni e lo userò per fare qualcosa per il mio villaggio”», confida. «Volevo restituire un po’ di quello che avevo ricevuto, così ho deciso di costruire una scuola a Cutia, per permettere ai bambini di cominciare a studiare fin da piccoli, non come me». L’anno scorso, il nuovo istituto è stato inaugurato. Comprende anche l’asilo: non è mai troppo presto per coltivare il cambiamento… «Se vogliamo sviluppare le nostre comunità, la chiave è l’istruzione».

È proprio questa la convinzione che, esattamente cinquant’anni fa, portò il Pime a inventare quelle che al tempo furono battezzate “adozioni a distanza”: uno strumento di supporto allo sviluppo nella forma di un aiuto costante da parte di un donatore del “Nord del mondo” verso un ragazzo bisognoso in un Paese di missione, attraverso la presa in carico, in primo luogo, delle spese per l’istruzione. Una formula dimostratasi efficace che fu poi “copiata” da molte altre associazioni e ong.

«Il Pime ha sempre creduto e crede nell’importanza dell’educazione delle nuove generazioni come primo strumento per strappare famiglie e Paesi interi alla povertà», conferma padre Mario Ghezzi, direttore del Centro Pime di Milano. «Un impegno di sostegno sul medio-lungo termine fa la differenza per chi è aiutato, perché permette di progettare un percorso di studi con una tranquillità che altrimenti molti giovani non avrebbero. L’incertezza economica è uno dei primi motivi di abbandono scolastico».

Per Amy, la cui famiglia emigrò dal Myanmar al Nord della Thailandia quando lei aveva nove anni, il supporto dei missionari è stato una costante della sua infanzia e giovinezza, e la possibilità di studiare è andata di pari passo con «l’educazione a un vero e proprio stile di vita, incentrato sull’attenzione ai bisogni degli altri», racconta. Agli inizi degli anni Duemila, Amy Chemue, la cui famiglia è cattolica, conobbe il Centro Holy Spirit di Mae Suay: era andata ad accompagnare il papà a una riunione e incontrò padre Maurizio Arioldi. Sarebbe stato lui, di lì a poco, a darle l’opportunità di entrare nel programma di “sostegno a distanza” e cominciare a frequentare la scuola del Centro, fino alle superiori. Concluso il ciclo di studi, la giovane fu accettata al corso universitario quadriennale per diventare catechista. «Cominciai poi a lavorare alla missione con i ragazzi: per sette anni girai tra i villaggi per insegnare il catechismo e affiancare i più giovani con tante attività».

Un’esperienza che la spinse al passo successivo: «Ogni giorno toccavo con mano tanti problemi anche emotivi e pensavo che avrei voluto essere in grado di aiutare le persone nel modo adeguato», racconta. Decise così di iscriversi al corso universitario di Consulenza psicologica: una nuova sfida che sta concludendo proprio in queste settimane, con la discussione della tesi di laurea. «Ho già ricevuto alcune offerte di lavoro e sto valutando se impegnarmi in un contesto esterno alla Chiesa per poter incidere nella società in modo più allargato e far fruttare la formazione cattolica, che mi ha resa quella che sono», afferma.

I ragazzi aiutati attraverso il sostegno a distanza si trasformano in catalizzatori dello sviluppo. Non solo perché le quote versate dai donatori garantiscono spesso anche lo stipendio agli insegnanti o il cibo alla mensa scolastica, allargando i benefici dal singolo alla collettività, ma soprattutto perché ogni giovane che ha ricevuto istruzione e cure mediche, assistenza spirituale e affetto si trova poi nelle migliori condizioni per rimboccarsi le maniche e cercare di dare il meglio di sé nel contesto in cui vive.

Sono ormai decine di migliaia le “scintille di cambiamento” che, grazie all’impegno di altrettante “famiglie a distanza”, sono state accese in questi decenni, mentre più di 12 mila sono i sostegni attivi, dal Bangladesh ad Haiti, dalle Filippine alla Costa d’Avorio, dal Brasile all’India… 79 progetti in tredici Paesi tra i più bisognosi.

Come il Camerun, dove vivono Bernadette Maipa e Marcel Diele, di 24 e 26 anni, accolti da bambini nel Centro Monsignor Yves Plumey fondato dalla religiosa congolese suor Nicole Nshombo a Marza, a pochi chilometri da Ngaoundéré. Bernadette e Marcel provenivano da situazioni familiari di grave disagio: per loro l’ingresso nella Casa dei Bambini (sostenuta dalla Fondazione Pime) ha significato vivere un’infanzia serena e costruire le basi per un futuro di speranza. «Già da ragazzina, tutte le volte che arrivavano al Centro piccoli bisognosi di cure mediche io accorrevo per dare una mano: penso che la mia vocazione sia nata lì», racconta Bernadette, che oggi, dopo aver ottenuto la licenza in Scienze infermieristiche all’università, lavora nella stessa struttura che le aprì le porte quando era piccola. Un percorso simile a quello di Marcel, quarto di nove fratelli, laureatosi in Analisi biomediche e che ora è a capo del Laboratorio del Centro. «Frequentare la scuola mi ha aiutato a evitare le cattive compagnie – racconta – e mi ha permesso di scoprire la mia passione per la scienza, che ho deciso di mettere al servizio dei più poveri».

Emmanuel, invece, amava la matematica. «Ero il migliore tra i 123 studenti della mia scuola di Kapwapu, un villaggio sulla remota isola di Kiriwina, in Papua Nuova Guinea», ricorda. «Fui selezionato per frequentare una scuola superiore avanzata nella città di Alotau. Ero felice, ma anche molto preoccupato perché non sapevo chi avrebbe pagato la retta: eravamo cinque fratelli, e i miei genitori erano agricoltori di sussistenza». Fu allora che Emmanuel Budibudi, oggi 35enne, incontrò padre Giorgio Licini, missionario del Pime in Papua. «Era il 2003, e padre Giorgio era venuto a celebrare la Messa nel mio villaggio. Chiesi aiuto a lui e fu così che io, e poi anche mio fratello Simon, diventammo i pionieri del progetto di borse di studio nel Paese». Oggi il Pime promuove programmi per il sostegno anche di studenti universitari, dalla Cambogia al Bangladesh.

Emmanuel scelse la facoltà di Scienze e si laureò nel 2010 con una specializzazione in Informatica. «Per cinque anni ho lavorato all’estero, ma poi ho deciso di provare a realizzare il mio sogno: diventare un accademico all’Università della Papua per formare la giovane élite del mio Paese. Ma serviva una qualifica post laurea». Obiettivo raggiunto due anni fa grazie a una nuova borsa di studio e a tanto impegno – nel frattempo Emmanuel si è sposato e ha avuto due bimbi.Oggi il giovane, con in tasca la sua licenza post laurea in Tecnologia web, è diventato insegnante tutor all’università (mentre suo fratello Simon è maestro elementare). «Aiutare gli studenti svantaggiati è strategico – assicura – perché in cambio della chance ottenuta si impegnano ancor più degli altri per ottenere i risultati migliori».

Ma c’è di più. Per padre Mario Ghezzi «il sostegno a distanza è un’occasione per creare ponti tra persone, culture e Paesi diversi superando chiusure ed egoismi che sempre tentano ognuno di noi». Uno strumento di aiuto allo sviluppo che favorisce anche una maggiore consapevolezza sulla situazione dei Paesi di missione. «Attivare un’“adozione” – spiega padre Ghezzi – non significa semplicemente inviare un assegno a un giovane indigente, ma soprattutto iniziare e portare avanti una relazione con lui e, spesso, anche con la sua famiglia. Lettere, foto, pagelle tengono vivo questo rapporto che apre orizzonti e mondi sconosciuti da entrambe le parti». E fanno sentire accanto il “fratello o la sorella lontani” che si stanno aiutando. Che si tratti di un bimbo o di un giovane universitario, di una persona disabile, particolarmente vulnerabile, o di un seminarista.

Fel Catan, in effetti, oggi è in seminario. E a settembre diventerà diacono. Ma fu “adottato” a distanza per la prima volta quando era un bambino, a sette anni, figlio di una famiglia numerosa – sei fratelli – della città filippina di Sirawai, Zamboanga del nord, una zona ostaggio delle violenze dei terroristi di matrice islamista.

«All’inizio, quando fui inserito nel programma che era stato avviato da padre Alessandro Brambilla non me ne resi neanche conto», racconta Fel. «Poi, pian piano, capii che c’erano persone lontane che si stavano prendendo cura di me perché le maestre mi chiedevano di scrivere delle lettere e io ricevevo le loro, con gli auguri per le feste, le foto della famiglia… Noi bambini sapevamo che era grazie a queste persone che potevamo avere i quaderni e il materiale scolastico, le scarpe e i vestiti. Io non capivo le parole di quelle lettere, però mi rimase in mente un’espressione, “Tanti auguri”: solo molti anni dopo, qui in Italia, ne avrei scoperto il significato!».

Una volta cresciuto, infatti, quando già da tempo non manteneva più la sua corrispondenza con i benefattori lontani e si era laureato in Ingegneria civile, Fel sentì più forte quel richiamo – lui la chiama «seduzione» – che percepiva vagamente già da piccolo, quando andava in parrocchia a cantare per la Messa.

«All’improvviso capii che il mio desiderio era di diventare un prete, come padre Alessandro e come mio zio, che tanti anni prima era stato il primo sacerdote del Pime nelle Filippine». Seguirono dunque gli anni di seminario a Tagaytay, nelle Filippine, e poi, dal 2014, a Monza. Fu lì che riaffiorarono i ricordi dell’infanzia. «Pensavo a quella famiglia che mi aveva aiutato… mi chiedevo dove fossero, che cosa facessero…». Alla fine, recentemente il giovane si è rivolto all’Ufficio Aiuto Missioni del Pime e, ottenute le informazioni che cercava – «e quando mi sono sentito pronto» – si è messo in contatto con i suoi vecchi “adottanti”. «È stata una grande emozione», racconta. «La “mamma” si ricordava ancora di me. Ci siamo parlati al telefono e spero che, in occasione del mio diaconato, finalmente ci abbracceremo».  Un tipo tutto speciale di “ricongiungimento familiare”.