La mia lotta contro la schiavitù

La mia lotta contro la schiavitù

Antonio Maria Costa è stato a lungo direttore dell’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del contrasto alla tratta di esseri umani: «L’Onu e i governi hanno bisogno del sostegno della società civile»

«I miei colleghi incaricati delle varie agenzie Onu lavorano a favore dei “beni globali” del mondo, quali pace, sicurezza, sviluppo, sanità, istruzione, lavoro e così via. Io, invece, ho lavorato contro i “mali globali” dell’umanità: schiavitù, crimine, corruzione e terrorismo.  Non sorprendentemente, alle Nazioni Unite sono stato il vice segretario generale per gli “affari sinistri”». Si presenta così, con un pizzico di umorismo, Antonio Maria Costa che per quasi un decennio – dal 2002 al 2010 – è stato direttore esecutivo di Unodc, l’agenzia che si occupa del contrasto alla droga e al crimine, oltre che vice segretario generale dell’Onu. A lungo in veste istituzionale e ancora oggi a titolo personale continua a portare avanti la battaglia contro la tratta e le nuove forme di schiavitù, una piaga che riguarda oltre 40 milioni di persone nel mondo, il 72% delle quali donne e bambine, la maggior parte costrette alla prostituzione coatta, ma anche al lavoro forzato. L’ultimo rapporto di Unodc dello scorso 7 gennaio traccia un quadro mondiale a tinte fosche, soprattutto per quanto riguarda il sempre maggiore coinvolgimento di minorenni che attualmente rappresentano circa un terzo delle vittime. Un dramma nel dramma.
«A partire dall’inizio del Duemila – analizza Costa – dopo la firma del Protocollo di Palermo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, si è avvertito un crescente sentimento di rivolta contro questo dramma della schiavitù moderna. Anche i governi hanno sentito l’esigenza di legiferare su questo problema. Da quel momento, il tema è diventato meglio noto anche a livello dell’opinione pubblica e delle varie componenti della società civile».

Secondo l’ex direttore di Unodc, le Nazioni Unite e i governi non possono contrastarlo da soli: «Hanno bisogno di volontariato, di istituzioni religiose, del settore privato, dei mezzi d’informazione e del mondo accademico». Certo gli uni hanno necessità degli altri, e viceversa. Solo in un contesto di partnership, infatti, il contrasto alla tratta di persone potrà essere davvero efficace, sia in un’ottica di prevenzione che in un’ottica di perseguimento dei criminali, oltre che, appunto, di protezione delle vittime.

«Negli anni che ho trascorso all’Onu – ammette Costa – ho sperimentato spesso un sentimento di impotenza e di inadeguatezza riguardo a tutte le attività che ho gestito, in particolare la lotta al traffico di droga e al crimine organizzato in cui rientra anche il traffico di esseri umani. Si tratta di questioni enormi rispetto alle quali lo sforzo in termini di contrasto è assolutamente inadeguato. Solo per fare un esempio, penso al monitoraggio dei flussi di soldi che queste attività illecite procurano o al perseguimento di coloro che se ne appropriano, anche istituzioni finanziarie o banche…».

Ecco perché, anche ora che ha lasciato l’incarico, Costa continua a dedicarsi a questi temi, scrivendo molto, realizzando iniziative personali, o attraverso la Fondazione Centesimus Annus Pro Pontefice. «Papa Francesco – riconosce – è personalmente molto impegnato sul tema della tratta ottenendo riscontri che anche le Nazioni Unite non raggiungono».

Oggi nel mondo, sono ancora molti coloro che faticano addirittura a leggere il fenomeno e a dargli il giusto nome: “traffico di esseri umani” o “tratta” non restituiscono la gravità della situazione: «È come se ci fosse quasi un pudore nell’utilizzare il termine “schiavi” per definire i milioni di persone ridotti in condizione servile dentro e fuori i loro Paesi. Come se quello della schiavitù fosse un capitolo chiuso della storia».

Per chiarire, Costa racconta alcuni casi che ha seguito personalmente. Quello di Joseph Kony, innanzitutto, il leader del Lord Resistance Army, l’Esercito di Resistenza del Signore, che ha devastato il Nord dell’Uganda per quasi due decenni e ora si è trasferito tra R.D. Congo, Centrafrica e Sud Sudan. «La Corte penale internazionale dell’Aja – ricorda Costa – ha emesso contro di lui 12 capi d’accusa per crimini contro l’umanità e 21 per crimini di guerra, senza risultato».

Le sue vittime, per Costa, hanno un nome e un volto; come James, un ragazzo di 14 anni obbligato, quando ne aveva 9, a fare a pezzi con i denti suo fratello maggiore. Oppure chiedete a Nancy, ora sedicenne, a cui, dopo stupri ripetuti dal vice di Kony, sono stati amputati naso, labbra ed orecchie. Oppure gli abitanti di Gere-Gere che Kony ha costretto a ingoiare resti bolliti di 24 vicini massacrati durante l’incursione.

Il secondo “demone” secondo Costa ha il volto di Joaquin Guzman, detto el Chapo, leader del cartello di Sinaloa, recentemente condannato a New York. In questo caso, almeno, la giustizia sembra aver fatto il suo corso.

«I testimoni dell’accusa – racconta Costa – hanno rivelato forme di violenza analoghe a quelle della mafia: rapimenti, assassinii, amputazioni. La popolazione terrorizzata, la polizia corrotta, i corpi dei nemici sciolti nell’acido, labbra e genitali amputati. E poi cadaveri appesi ai viadotti, teste mozzate issate su pali e tralicci. Killer professionisti che incidono il proprio nome sul petto delle vittime, a volte ingabbiate con animali feroci per estrarne informazioni o punirne il comportamento. Traffici, sfruttamento e violenza creano la peggiore forma di schiavitù: i membri del cartello sanno di morire giovani nella guerra tra bande, oppure ammazzati se disertano».

La terza storia che propone Costa riguarda un altro continente, l’Asia, come a dire che tratta e nuove schiavitù oggi non hanno confini e rappresentano davvero una piaga mondiale. «Ananya – racconta – gestisce un’azienda che produce abiti, nella periferia di Mumbay, in India, e realizza eccellenti profitti, sfruttando giovani rapite alle famiglie o vendute dalle famiglie stesse. Queste ragazze sono pagate l’equivalente di 2 euro al giorno, per 10 ore di lavoro, spesso “accompagnato” da violenza sessuale. La fuga, una rara opzione, sempre finisce male. Conosco personalmente la storia di un’adolescente che, una volta evasa, ritorna a piedi al villaggio nell’India settentrionale. A casa scopre che suo padre, l’idolo dei suoi sogni, l’aveva venduta in servitù per pagare un vecchio debito. A quel punto la giovane si è buttata in un pozzo».

Come è possibile tutto ciò? Costa non ci gira troppo intorno: «Per ognuno dei personaggi diabolici come Kony, el Chapo o Ananya ci sono migliaia di reclute, alcune con i colletti bianchi e una vita borghese, che li assecondano: scafisti, doganieri corrotti, funzionari deviati, sfruttatori nelle banche e nella finanza».

E il fenomeno non riguarda solo le “periferie” del mondo, ma è molto più vicino di quanto spesso non vogliamo vedere. Costa, che vive a Vienna, ha incontrato lì Romanu, un ragazzino di 14 anni, sotto protezione della polizia e del Centro nazionale contro lo sfruttamento dell’infanzia.  Romanu era stato ceduto ai trafficanti dalla famiglia («sotto contratto firmato da un notaio in Romania») per un periodo di due anni in cambio di un televisore a colori. Portato a Vienna, è stato costretto all’accattonaggio sei giorni alla settimana, dall’alba alla sera. E se non riusciva a racimolare la somma concordata, veniva costretto a prostituirsi il settimo giorno. Come lui, centinaia di minorenni provenienti dall’Europa dell’Est o dall’Asia.

Lo stesso vale per l’Italia, dove ci sono dalle 30 alle 50 mila donne immigrate, molte delle quali nigeriane, vittime di tratta e costrette a prostituirsi. Così come nel nostro Paese ci sono più di 130 mila persone ridotte in condizione servile per il grave sfruttamento lavorativo, specialmente in campo agricolo, ma non solo.

«Sfruttamento, servitù e violenza – sottolinea Costa – sono minacce complesse per essere lasciate solo a governi oberati di spese, priorità e pressioni politiche. Il ruolo del no profit e di organizzazioni come Pime, Caritas e Mani Tese è fondamentale. Ma deve essere arricchito da migliaia di altre istituzioni. La coalizione civile che ha generato massicce campagne contro il cambiamento climatico e per il risparmio energetico, contro il tabacco e per il riciclo dei rifiuti, contro la fame nel mondo o nella lotta all’Aids – solo per menzionare alcune delle campagne che stiamo vincendo – deve ora mobilitarsi anche contro il traffico di esseri umani e la schiavitù moderna».

«In altre parole – conclude Antonio Maria Costa con un appello – la sfida è di affrontare gli aspetti sinistri del mondo, lavorando di più e più insieme. Come individui, ascoltiamo le parole di Gesù Cristo: “Andate e fate come il Samaritano”. Come membri della società organizzata, ascoltiamo sant’Agostino: “La carità non è un sostituto per la giustizia negata”. E viceversa».