Una donna che si è vista massacrare la famiglia, un bambino sopravvissuto per miracolo, un volontario che non ha mai smesso di tornare nel Paese. A trent’anni dal genocidio dei tutsi, restano le ferite, ma anche tante esperienze di bene. Ascolta anche il PODCAST
«Con il passare del tempo, soprattutto dopo il matrimonio, il nostro passato è diventato la nostra forza in quanto ruandesi. Asciugandoci le lacrime scaturite da quel passato, ora ci rendiamo conto che la nostra unione è la giusta via per quell’unità che ogni ruandese cerca di portare avanti, coltivandola giorno per giorno». Ci sono voluti quasi trent’anni a Jean-Paul Habimana per mettere per iscritto la sua storia nel libro Nonostante la paura (Terre di Mezzo), e a sua moglie Louise per rielaborare il dramma e il dolore di quei tragici giorni dell’aprile 1994, quando scoppiò uno dei più tragici massacri del XX secolo: il genocidio dei tutsi del Ruanda. In poco più di cento giorni vennero massacrate circa 800 mila persone, in gran parte tutsi, ma anche moltissimi hutu moderati. Dopo la presa del potere da parte del Fronte patriottico ruandese (Fpr), guidato da Paul Kagame (presidente dal 2000), circa due milioni di hutu fuggirono nei Paesi vicini, e in particolare nell’Est della Repubblica Democratica del Congo, tuttora destabilizzato.
Le ferite di quel massacro non sono del tutto rimarginate dentro e fuori il Paese. E anche nel cuore dei moltissimi che, come Jean-Paul, vivono nella diaspora. Ancora oggi non è facile rievocare quei giorni di violenza, paura e fame.
Jean-Paul si salvò per miracolo: «Immobile, sotterrato dai cadaveri, per un tempo che mi sembrò infinito». Riuscì a liberarsi e a rifugiarsi in un convento: «Dietro le spalle lasciai corpi sventrati e amputati, ancora sanguinanti. Ero sopravvissuto e dovevo ringraziare Dio». La fede lo ha accompagnato anche negli anni successivi, che non sono stati per nulla facili, nonostante la calma tornata nel Paese. Non lo sono stati certamente per lui che ha deciso di sposare una donna hutu, la cui famiglia era stata implicata nel genocidio. Oggi Jean-Paul e Louise vivono in Italia e i loro due figli sono ruandesi e italiani, non hutu o tutsi. «Anche in Ruanda – fa notare – non ci sono più distinzioni etniche sulle carte di identità, come era stato imposto dai colonizzatori belgi, che avevano accentuato differenze e divisioni».
Sul tema dell’unità e del sentirsi tutti ruandesi insiste molto anche una donna che da trent’anni non smette di lottare per la pace, la riconciliazione e la coesistenza pacifica: Godeliève Mukasarasi, pure lei una sopravvissuta. La sua famiglia e soprattutto quella di suo marito sono state sterminate. Lei, che già lavorava come assistente sociale, ha trovato la forza e il coraggio di rimettersi in gioco subito e nel giro di pochi mesi ha creato l’associazione “Solidarietà per la promozione delle vedove e degli orfani in vista dell’impiego e dell’autopromozione” (Sevota), che non ha mai smesso di lavorare, arrivando ad assistere e ad accompagnare in vari modi più di 70 mila persone. Riconosciuta nel 2018 con l’International Women of Courage Award dal Dipartimento di Stato Usa, è stata inserita nel marzo del 2022 tra i “Giusti” della Shoah e degli altri genocidi al Giardino del Monte Stella di Milano dall’Associazione “Gariwo, la foresta dei Giusti”.
E ora lei stessa si sta impegnando, insieme a un’altra donna eccezionale, Yolande Mukagasana – pure lei sopravvissuta e impegnata nella riconciliazione -, per creare un Giardino dei Giusti anche in Ruanda, che si spera possa essere inaugurato in occasione del trentennale del genocidio. «La situazione nel Paese è molto migliorata – testimonia Godeliève -. Ma la pace e la stabilità non sono qualcosa che si ottiene una volta per tutte. Occorre continuare a lavorare affinché tutti i ruandesi si sentano autenticamente fratelli. Ne va del futuro dei nostri bambini e dello sviluppo del nostro Paese».
Lei per prima non ha mai smesso di impegnarsi con tutte le sue forze. Dopo il primo incontro con un gruppo di vedove organizzato nel dicembre del 1994, ha continuato a promuovere iniziative di formazione e sensibilizzazione, a facilitare la creazione di gruppi di mutuo aiuto, a fornire assistenza psicologica e a creare le condizioni perché le persone si rimettessero in piedi in autonomia. «All’inizio si trattava soprattutto di affrontare i traumi – ricorda -, ma anche di mettere le persone nelle condizioni di sopravvivere». Nel Paese, del resto, erano rimaste soprattutto donne: migliaia di uomini tutsi erano stati uccisi, moltissimi hutu erano fuggiti all’estero. Le vedove neppure si contavano, così come le donne vittime di violenza e gli orfani, che improvvisamente erano diventati migliaia e non avevano più nessuno a cui fare riferimento. «Bisognava ricominciare subito e bisognava farlo tutti insieme – riflette oggi Godeliève – anche per arrestare quella spirale di odio, vendette, diffidenza e sofferenza che rischiava di non avere mai fine».
In questi trent’anni Godeliève ha mobilitato istituzioni, associazioni della società civile, chiese, villaggi interi… «I primi aiuti mi sono arrivati proprio dalla mia parrocchia e da persone molto semplici che non avevano nulla, ma che hanno messo in comune un po’ di cibo e qualche soldo raccolto con piccole collette». Del resto, questa donna ormai 65enne, ma ancora battagliera e piena di energie, continua a essere convinta che il processo di riconciliazione riguardi l’intera società. Ancora oggi. «Tutti noi dobbiamo partecipare alla ricostruzione delle nostre comunità e alla guarigione della memoria. Compresi i giovani, che non hanno vissuto direttamente il trauma del genocidio, ma che possono avere la mente avvelenata dalla propaganda. E persino gli stessi genocidari. Alcuni di loro, nel 1994, erano molto giovani e hanno commesso atrocità di cui si sono pentiti e per cui sono rimasti loro stessi traumatizzati. È importante coinvolgerli nei processi di riconciliazione, affinché ci si possa finalmente considerare un solo popolo».
Ma c’è anche chi dall’esterno ha fatto proprie queste sfide e queste fatiche. «In tutti questi anni è stato più importante condividere una strada che raggiungere dei traguardi», sostiene Paolo Sormani, presidente di Variopinto, un’organizzazione di Limbiate (MI) che da trent’anni garantisce una vicinanza fatta di collaborazione fedele e di autentica cooperazione. Sono molte le associazioni e le ong, che si sono impegnate in questi anni in Ruanda, dove peraltro non sono mancati aiuti e fondi – anche ingenti – da parte di Paesi e istituzioni internazionali. Pur non essendo l’unico, Variopinto è un esempio di condivisione, che è partita, e continua a farlo ancora oggi, dai bisogni della gente del posto, ed è stata portata avanti innanzitutto con la diocesi di Butare. «Ci sono ancora tante ferite nel cuore dei ruandesi, anche se molti non lo mostrano – testimonia Sormani, che non ha mai smesso di mantenere vivo un legame che è diventato soprattutto di amicizia -, ma ci sono anche tante belle storie, tanti momenti vissuti insieme, di sofferenza ma anche di gioia, di pianti e di sorrisi».
In questi anni, Variopinto ha operato soprattutto nell’ambito educativo. Attualmente sostiene 14 scuole dalle materne alle superiori, un Centro per ragazzi con disabilità a Mugombwa e il progetto Nyampinga per l’accoglienza di una sessantina di bambine e ragazze abbandonate o fuggite dalle loro famiglie, ma porta avanti anche un laboratorio di artigianato e l’atelier di taglio e cucito della cooperativa Bahoze, i cui prodotti vengono venduti pure nella bottega del Pime di Milano. «Abbiamo incontrato e conosciuto persone che venivano da vissuti inenarrabili. Abbiamo ascoltato le loro storie senza poter comprendere fino in fondo il loro dolore. Abbiamo sentito il bisogno, la necessità e forse la presunzione di dovere e di potere fare qualcosa. Sono nate molte cose e molte sono cambiate: sono cambiati anche i bisogni e le possibilità di intervento. Ma non è cambiato il nostro modo di essere lì, in ascolto del territorio e delle persone. Il “nostro” Ruanda – conclude Sormani – è nell’insieme delle persone con cui abbiamo cercato un cammino. Dove nessuno ha solo dato, ma tutti hanno anche preso. A cominciare da noi».
IL LIBRO AL PIME
Giovedì 18 aprile alle 18,30, al Centro Pime di Milano, Pietro Veronese, ex inviato di Repubblica, presenta il libro “La famiglia. Una storia ruandese” (Edizioni e/o), insieme a Honorine Mujyambere, una delle testimoni che solo trent’anni dopo ha deciso di condividere, insieme ad altri otto sopravvissuti, la sua storia di dolore, ma anche il ritorno alla vita, all’amore e alla speranza (info: centropime.org).