Effetto Duterte: scoppiano anche le carceri

Effetto Duterte: scoppiano anche le carceri

Nelle 466 istituzioni carcerarie delle Filippine sono rinchiusi 142mila detenuti, contro i 24mila posti ufficiali per cui queste strutture sono censite. Per il 64 per cento sono detenuti legati alla lotta alla droga, che con i metodi giustizialisti voluti dal presidente ha già fatto 10 mila morti nel Paese

 

La situazione delle carceri filippine, aggravata dall’incarcerazione di decine di migliaia di tossicodipendenti dovuta alla “guerra alla droga” voluta dal presidente Duterte, è arrivata ormai oltre ogni soglia di tolleranza. E le denunce – inascoltate – si moltiplicano.

Eletto il 9 maggio e in carica dal 30 giugno 2016, nonostante le critiche, “il giustiziere” Duterte sembra inarrestabile. Ha vinto le sue elezioni con una maggioranza indiscussa basando la campagna elettorale sulla lotta alla criminalità e alla violenza di strada con metodi giustizialisti che hanno provocato già un bilancio di 10mila morti. Spacciatori o tossicodipendenti uccisi in scontri con la polizia per un quarto, ma molti altri vittime di esecuzioni extragiudiziali o semplicemente scomparsi. In un anno, un numero immenso di individui, superiore al milione si è autodenunciato per consumo di stupefacenti e spesso è stato rilasciato dopo brevi periodi di detenzione in carceri sovraffollate oltre ogni immaginazione. Una situazione che ha accentuato i rischi di reazione della criminalità, l’ostilità di quasi tutta la comunità internazionale ma anche l’opposizione degli avversari politici e di tanti nella società civile che temono che l’obiettivo finale del presidente possa essere l’imposizione della legge marziale, sia a causa di una reazione ai costi sociali altissimi della sua politica, sia nel caso Duterte non raggiunga i suoi obiettivi e quindi usi il fallimento come pretesto per imporre il proprio controllo senza rivali sul Paese.

Un convegno sulla situazione delle carceri filippine ha segnalato con chiarezza le condizioni invivibili in cui si trovano oggi a vivere i detenuti, perlopiù in attesa di giudizio. Come testimoniato da Paulino Moreno Jr, funzionario di alto livello dell’Ufficio per la gestione delle pene e delle carceri alla fine di aprile, nelle 466 istituzioni carcerarie del Paese erano rinchiusi 142mila detenuti, per il 64 per cento sospettati di reati connessi con la droga o per essi condannati. Non solo una crescita di 10mila unità rispetto alla fine di gennaio, ma costretti in strutture che ne potrebbero ospitare 24mila, perlopiù fatiscenti, con cibo inadeguato e spazi per dormire, mangiare, lavarsi e soddisfare le necessità corporali utilizzabili soltanto a turno.

Nonostante questa situazione finora le pressioni internazionali, soprattutto occidentali, hanno avuto come risultato solo epiteti lanciati a piene mani da Duterte e un’accelerazione nei rapporti con Pechino. Doppiamente ambigui, dato che non solo sono incentivati da leadership accomunate da volontà di controllo indiscusso e comune repressione della dissidenza, ma anche riguardano due Paesi che hanno un contenzioso territoriale aperto sul Mar cinese meridionale che più volte ha rischiato di portarli al conflitto armato.

Anche su questo fronte, però il presidente ha più volte confermato che “solo i filippini contano” e che la politica di sradicamento violento della criminalità “continuerà fino a quando ci sarà un solo spacciatore vivo” e che la comunità internazionale deve stare fuori dalla “sua” partita.

Sintomatica in questo senso la decisione comunicata il 18 maggio di volere interrompere ogni ulteriore prestito dell’Unione europea (quelli in via di definizione avevano un valore di 250 milioni di euro) proprio per la ripetuta condanna dei metodi e dei risultati della sua “guerra alla droga”. Campagna peraltro duramente contestata anche dalla Conferenza episcopale filippina, sebbene non tutti pastori locali individualmente abbiamo dimostrato la stessa visione sulla questione.