Cristiani in fuga dal Pakistan, pugno di ferro della Thailandia

Cristiani in fuga dal Pakistan, pugno di ferro della Thailandia

Il regno thai – che non ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati del 1951 – sta attuando una stretta nei confronti dei richiedenti asilo giunti nel Paese. Tra loro si calcola che almeno 2500 siano cristiani pachistani, molti dei quali giunti nel Paese dopo le strage della Pasqua 2016 a Lahore

 

Dopo mesi di pressione per chiudere le porte a un’immigrazione consistente e anche scomoda per le ripercussioni internazionali, le autorità thailandesi hanno deciso un’azione di forza contro i pachistani concentrati nella capitale Bangkok. All’alba di martedì 9 ottobre poliziotti e funzionari dell’Immigrazione hanno effettuato retate in diverse aree della città fermando diversi richiedenti asilo. Profughi da tempi diversi, alcuni anche da anni nel Paese e tra loro anche un centinaio di cristiani, tra cui donne e – per circa la metà – minorenni. Tra i fermati che vanno verso l’espulsione, ci sarebbero anche individui e nuclei familiari ai quali l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati aveva già garantito la protezione umanitaria e una prospettiva di espatrio verso un Paese terzo.

L’iniziativa ha una ragione contingente nella recente nomina e nello zelo del nuovo responsabile nazionale dell’Immigrazione; tuttavia costituiscono un chiaro messaggio di rischio per una comunità, che dopo aver subito una persecuzione nel Paese d’origine e essere emigrata con costi e rischi notevoli per cercare sicurezza e benessere, subisce costantemente la minaccia di incarcerazione e rimpatrio con i relativi rischi.

Il regno thai non ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati del 1951 e di conseguenza, senza riconoscimento legale, molte famiglie rischiano periodi di sostanziale carcerazione dalla durata incerta prima di potere ottenere il rilascio su cauzione, il rimpatrio coatto oppure la ricollocazione altrove. Con un’accelerazione successiva alla strage della Pasqua 2016 – rivendicata da un gruppo affiliato all’Isis a Lahore, con 75 morti e oltre 30 feriti in buona parte cristiani – l’afflusso di profughi è andato intensificandosi.

Il Paese del Sorriso – ora sotto la tutela militare – è firmatario delle leggi internazionali che regolano il trattamento umano dei prigionieri e proibiscono l’incarcerazione di minori (ancor più se in strutture detentive per adulti) ma vede estesi abusi della legge. Allo stesso tempo, per chi riesce a non farsi identificare e sceglie una vita in bilico, sicurezza e possibilità di sostentamento restano limitate.

Sono 11.500 i richiedenti asilo di ogni provenienza in Thailandia e si calcola che siano 2.500 i cristiani pachistani. In buona parte non dispongono di alcuna tutela umanitaria e anche per questo vanno moltiplicandosi gli appelli affinché organismi internazionali e diplomazie intervengano per impedire – con tutele adeguate in loco ma anche e soprattutto con l’accoglienza in un Paese terzo – un rientro in patria per molti rischioso.

La scelta dei cristiani pachistani in fuga di dirigersi verso la Thailandia è influenzata da vari fattori: la relativa vicinanza geografica, la possibilità per i pachistani di ottenere un visto turistico di 30 giorni, la tolleranza finora verso aree di illegalità purché non risultassero destabilizzanti per la società locale.

Come indicato da operatori umanitari, i fuggiaschi «non possono lavorare, devono fuggire e nascondersi continuamente, non possono guadagnare, non possono disporre di cibo adeguato o di un rifugio, non possono avere medicinali. Di conseguenza, tutto quello che è necessario alla sopravvivenza deve essere fornito da altri». Una situazione insostenibile, accentuata dall’incertezza delle prospettive. Fino a poco tempo fa l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati impiegava mesi per attribuire la qualifica di rifugiato, ma le  Chiese e congregazioni cristiane locali riuscivano lo stesso a soddisfare le necessità essenziali dei profughi. Con il passare del tempo, invece, la situazione si è fatta drammatica anche sul piano assistenziale, oltre su quello di una ricollocazione. Di conseguenza risulta essenziale salvare il maggior numero possibile di individui dalla detenzione. Il pagamento di una cauzione è l’unica soluzione, ma il costo – che supera sovente i 1.000 euro – la rende una possibilità a volte irraggiungibile.