AL DI LA’ DEL MEKONG
Una fede dimezzata

Una fede dimezzata

Mettere Gesù nella nostra memoria/tomba significa metterlo nelle nostre case o cose morte, nelle relazioni sepolte e rimaste incompiute, nei lavori rimasti in sospeso, nelle parole non dette o dette male. Metterlo nei nostri archivi digitali pieni d’amore e di pena, di verità e di menzogne, di intimità e di tradimenti

 

«La memoria è una fabbrica
che non smette mai
fa i turni di notte e non ha festivi
»[1] Chandra Livia Candiani

 

Nei racconti di noi missionari spesso prevale la fatica della carità. Raccontiamo delle nostre opere sociali, del riscatto dei poveri, dei progetti di sviluppo che portiamo avanti per dare sollievo e dignità ai nostri ragazzi/e. Se da una parte anch’io mi accodo alla lista, purtroppo sempre più corta, di missionari sul campo impegnati sui fronti della carità, dall’altra, qualche giorno fa ho sperimentato che nella nostra gente qui in Cambogia c’è un potenziale di comprensione del mistero cristiano da non sottovalutare. Se non fossimo attenti a questo potenziale, che nel movimento del cuore diventa vera e propria attesa del Mistero, rischieremmo di annunciare una fede dimezzata dal nostro attivismo, forse anche dalla nostra mediocrità.

Papa Francesco ci ha messo in guardia contro il rischio di diffondere «forme riduttive di cristianesimo». Come se ad un certo punto della vita nemmeno al missionario interessi più Gesù Cristo e si aggiusti obbedendo alle consuetudini della missione, alle tante richieste di aiuto che, per quanto legittime e degne di attenzione, possono allo stesso tempo ridurre l’esperienza dell’annuncio. E burocratizzare la missione in uffici, relazioni, ops! report, resoconti di chi più ne ha (di quattrini), più ne metta. Ne parlo non per contrappore una missione contemplativa ad una più attiva o per insegnare qualcosa a qualcuno, ma perchè io per primo ci sono dentro fino al collo! E mi sto rendendo conto che da queste eventuali «forme riduttive di cristianesimo» – continua papa Francesco – non può «scaturire un autentico dinamismo evangelizzatore».[2]

Alcuni giorni fa ho sperimentato il gusto di vita nuova che porta il Vangelo. Stavo accompagnando un gruppo di novizie cambogiane all’incontro con il Risorto, in occasione del loro ritiro prima della professione religiosa, e ho voluto cominciare dalla sepoltura di Gesù come raccontata da San Matteo. Sappiamo che dopo la morte del Signore, è Giuseppe d’Arimatea che si prende la briga di chiedere a Pilato il corpo di Gesù. «Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia» (Mt 27,59-60). Quella tomba che è di Giuseppe diventa prima la tomba di Gesù.

Nell’originale greco “tomba” è detta con la parola mnēmeiō. Lo stesso vocabolo lo usa l’evangelista Giovanni per indicare la tomba di Lazzaro (10,17) e ancora la tomba dove verrà posto Gesù (20,11). Di per sé la parola italiana “tomba” deriva dal greco tymbos ma Matteo preferisce quell’altro vocabolo che ha una parentela stretta con la parola “memoria”. Letteralmente mnēmeiō potrebbe significare “memoriale” proprio come un monumento funerario, un luogo dove sono custodite le spoglie mortali di qualcuno e se ne preserva il ricordo, la memoria. Infatti deriva da mnémeion e non è difficile per noi riconoscervi anche l’aggettivo “menmonico”, sciagura di ogni insegnante. Mnémé poi in greco significa memoria, ricordanza per ciò che è stato e non si vorrebbe perdere.

Spiegavo questa parentela tra vocaboli e chi mi ascoltava non sempre sembrava afferrare la successione dei significati. Nondimeno l’idea di mettere il corpo di Gesù nella propria memoria/tomba suonava interessante. Ad un certo momento mi sono accorto che avrebbero capito. Mettere Gesù nella memoria significa metterlo nelle nostre case/cose morte, nelle relazioni sepolte nella memoria e rimaste incompiute, nei lavori rimasti in sospeso, nelle parole non dette o dette male. Metterlo nei nostri archivi digitali pieni d’amore e di pena, di verità e di menzogne, di intimità e di tradimenti. Ha ragione Livia Candiani quando scrive che la nostra memoria «è una fabbrica / che non smette mai». Perché ce la portiamo sempre dietro e rimuginiamo continuamente su tutto quanto ci è successo, soli la notte, fino a toglierci il sonno e rimanere sempre a metà della vita. La memoria – continua la poetessa – «fa i turni di notte e non ha festivi», perché non ci da tregua. «Quando prego tante voci vengono a distrarmi – raccontava una giovane presente al ritiro – e spesso non riesco a concentrarmi, troppa confusione dentro».

In un’altra lirica stupenda Livia Candiani a proposito di quelle voci scrive «ci sono le voci / Ci accompagnano / Ci mordono (…) Ci comandano / ci sgridano / quasi mai ci lodano / gridano nelle nostri notti insonni (…) Di chi sono queste voci / antenate e posteri (…) a cosa pensano mentre dormiamo».[3]

Ho raccomandato loro di non perdere nessuna di quelle voci e di metterci Gesù, così come Giuseppe d’Arimatea mette il corpo del Signore nella sua tomba/memoria. Potrebbero sembrare voli pindarici eppure mi seguivano, capivano e riaffioravano in loro una serie di ricordi, frammenti incompiuti che attendevano una luce. Papà, mamma, fratelli, amici, persone che non ci sono più. C’è un mondo dentro di noi. Ho detto loro che quelle voci interiori sono il grido di quei frammenti in cerca di pace e compimento. «Metteteci Gesù!». Io stesso stentavo a credere alla profonda risonanza interiore suscitata dal quel passaggio evangelico. Dentro un apperente gioco di parole e significati, in realtà ci veniva data l’occasione per interpretarli con fede. Le parole che ci siamo scambiati non erano «come farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari»,[4] ma come mattoni buoni per ri-edificare, o conchiglie che svelavano l’infinita eco del mare.

Abbiamo tanti spazi di memoria che assomigliano a ferite ancora aperte che vorrebbero partorire una nuova vita, ma sono costrette da troppo tempo ad abortire, mute. Da parte mia ho potuto toccare con mano la stessa esperienza di maternità/paternità descritta da San Paolo in uno dei passaggi più densi della lettera ai Galati quando paragona la sua missione a quella di una madre che sta per partorire: «Di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (Gal 4,19) – scrive Paolo – a dire che la sua missione i viaggi, gli incontri e gli scontri, le botte subite, i fallimenti, e la continua inarrestabile tensione all’annuncio, hanno solo questo obiettivo: «Finché non sia formato Cristo in voi!». Ché nella luce del Risorto quelle ferite siano il luogo dal quale partorire la vita del Dio che salva. Diversamente, noi missionari lasceremmo il nostro lavoro a metà, dimezzata la fede, la speranza, la carità. La stessa poetessa in un’altra stupenda lirica ci paragona ad «un magazzino / di semi, sotto la neve / fitta di pensieri / tesi al caldo / porosi alla luce, siamo».

Questo tempo di Quaresima mi sembra l’ideale per fare come Giuseppe. Buon cammino!

padre Alberto

[1] C. L. CANDIANI, Fatti vivo, Einaudi, Torino 2017, 158

[2] PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 94, il corsivo è nostro.

[3] C. L. CANDIANI, Fatti vivo, 143 – 144.

[4] K. RAHNER, La fede in mezzo al mondo, Paoline, Alba 1963, 135.