Storie di Coronavirus in Bangladesh

Storie di Coronavirus in Bangladesh

Padre Franco Cagnasso, missionario del Pime, sulla malattia con numeri (forse) ancora limitati a Dakha ma che sta fa già facendo vittime «collaterali» tra i poveri. Come Kakoli, Prodip, Mahmud e tanti altri…

 

Ammortizzatori

Kakoli. È una giovane hindu senza famiglia, con una bimba di 9 anni, e l’ex marito convivente con un’altra. Faceva la domestica in una famiglia, alloggiando nel loro appartamento. La famiglia si è trasferita e Kakoli ha trovato una stanza in affitto condivisa con due altre lavoratrici, mettendoci tutti i risparmi; ma era contenta, perché le suore hanno preso la bimba nel loro ostello, e una signora, cristiana, l’ha presa come apprendista nel suo piccolo Beauty Parlor (non so come si chiamino in Italia i luoghi dove ti risistemano un po’ la fisionomia – no, non a pugni, ma con creme e matite varie. Saloni di bellezza?) Poi è arrivato il coronavirus e il Beauty Parlor ha chiuso. La signora le ha dato 250 taka (due euro e mezzo) dicendole che per ricominciare aspettava tempi migliori; le due compagne di stanza se ne sono andate. La padrona della stanza ora la perseguita: la stanza è tutta per te, ora paghi tu per tutte e tre…

Prodip. Magrolino lui, e magrolina la moglie, sono una coppia di persone molto semplici, buone e simpatiche, con quattro figli piccoli. Lui lavorava in una fabbrica di abiti che alle prime avvisaglie di crisi ha chiuso. Aveva fatto un corsetto di meccanica anni fa, e allora s’è avventurato a prendere la patente per fare da taxista su un CNG, veicoli tipo Ape della Piaggio, attrezzato per passeggeri, con motore a gas compresso (Compressed Natural Gas = CNG). Ne affittava a giornata uno, tirando insieme i soldi per mantenere la famiglia. È andata bene per tre giorni, poi è arrivata voce che il virus s’era messo in pista. Il proprietario del CNG in poche ore lo ha (s)venduto e se ne è andato al villaggio. Prodip, con moglie e figli…

Mahmud. Pur essendo vecchio (circa 45 anni) ce la fa ancora a pedalare sul rikscio, per mantenere la famiglia nonostante la concorrenza dei tricicli a motore e delle motociclette gestite da Uber. Chiuse le scuole a causa del virus, i passeggeri sono drasticamente diminuiti; poi è stato proclamato un lungo periodo di vacanza straordinaria obbligatoria, insieme con il divieto di circolare se non per casi urgenti e indispensabili, e i passeggeri sono scomparsi. Quasi. L’altro giorno – mi diceva – il padre di uno degli alunni che lui era solito trasportare a scuola (una corsa, 60 taka), verso il tramonto gli ha chiesto di portarlo alla scuola del figlio. Era il primo e unico passeggero della giornata. All’arrivo, gli ha dato 30 taka: “Non ti va? Benissimo, la prossima volta trovo un altro, che mi porta per 20 taka”.

“Ammortizzatori sociali” credo che si chiamino, i sistemi per cui chi perde il lavoro non si trova immediatamente sul lastrico. Qui non hanno un nome, perché non esistono.

Persuasione. Anche nelle zone più periferiche e vicino alle baraccopoli, il divieto di circolare viene osservato abbastanza. Vista la gravità del problema e l’estensione di Dhaka, hanno chiamato l’esercito a pattugliare, e il sistema funziona; infatti sulle strade principali non si vedono veicoli né pedoni. Come mai tanta disciplina? I militari non sono autorizzati a dare multe, né ad arrestare, ma… “armira mare”, dice la gente, cioè “i soldati picchiano”: se trovano due, tre o più persone a spasso insieme, le pestano senza tanti complimenti.

Casi. La televisione ieri ha annunciato con soddisfazione che da due giorni non si sono registrati altri casi positivi di coronavirus. Poi ha aggiunto, di sfuggita, che erano stati fatti test su 110 persone. In verità non molti, per una popolazione di 160 milioni di abitanti.

Soccorso. In tante zone, in Dhaka e altrove, è iniziata la distribuzione di pacchi di cibo fra i più poveri, e di questo c’è davvero bisogno. La tv di stato mostra insistentemente funzionari, amministratori, e politici del partito al potere che si affollano per farsi riprendere mentre mettono i sacchetti in mano ai poveri. La voglia di farsi pubblicità è più forte della paura di trasmettersi il virus.

Italia. Sono tanti a mandare messaggi e telefonare per chiedere come va in Italia, e per assicurare preghiere. È vero, parecchi dei casi di esami positivi al coronavirus sono stati attribuiti al contagio causato dal rientro in Bangladesh di persone che lavoravano in Italia; è anche vero che nei campi dei profughi Rohingya hanno proibito a cinesi ed europei di circolare, perché vengono additati come “untori” e correrebbero gravi rischi. Ma il buon nome dell’Italia in Bangladesh c’era e rimane, assieme a riconoscenza. Speriamo che le promesse di preghiere siano vere.

Foto: Flickr / Kuruman

 

Per sostenere quanti nei Paesi dove vivono i nostri missionari si trovano a vivere oggi anche le sofferenze causate dal Coronavirus la Fondazione Pime Onlus ha aperto la raccolta straordinaria «Fondo S140 Emergenza Coronavirus nel mondo»