L’arte al tempo del Coronavirus

L’arte al tempo del Coronavirus

Cantanti, scultori, scrittori hanno reagito con creatività all’emergenza globale provocata dalla pandemia. E, dall’Africa al Medio Oriente, hanno messo il loro talento al servizio della salute dei più vulnerabili.

 

«Inaspettato, il silenzio ritorna con il nostro isolamento, lentamente… A poco a poco, ti ritrovi a sporgerti non sulla tua strada o sul tuo quartiere, ma su te stesso e sulle tue responsabilità. Parados­salmente, il confinamento si apre sull’immensità e non solo sulla chiusura». Il tempo strano e sospeso del lockdown provocato dall’emergenza Coronavirus ha interpellato, sfidato, messo a dura prova o ispirato un po’ tutti. Anche molti artisti in molte parti del mondo. Come Kamel Daoud, che ha scritto queste parole dal suo isolamento di Orano, in Algeria, da dove ha tenuto una sorta di diario della quarantena. Altri scrittori africani hanno dato vita addirittura a un festival letterario virtuale in tre edizioni, tra marzo e maggio, l’Afrolit Sans Frontieres Festival, promosso dalla scrittrice sudafricana Zukiswa Wanner, con sessioni di letture e di domande-risposte tutto su Facebook e Instagram.

Sono in tanti – e qui ci concentreremo “solo” su Africa e Medio Oriente – coloro che hanno riletto e reinterpretato attraverso la loro arte questo momento di crisi, che ha diviso le vite di miliardi di persone, in ogni parte del mondo, in un prima e in un dopo. Con in mezzo molto dolore, sofferenza, spaesamento, ma anche tanta speranza e creatività. In Africa, il Coronavirus ha colpito apparentemente in modo meno duro che altrove: almeno stando ai dati ufficiali di contagi e morti. Che risultano però da un numero ridottissimo di test eseguiti.

Impossibile sapere con certezza quanto il virus si sia effettivamente diffuso nel continente; tuttavia possiamo essere certi delle conseguenze drammatiche che le misure di lockdown hanno avuto e avranno in futuro in termini economici, sanitari, sociali e così via.

Se ne sono resi conto anche molti artisti africani che spesso nei loro Paesi hanno non solo un grande seguito di ammiratori, ma anche un ruolo sociale e talvolta politico di primo piano. E infatti, molti di loro – specialmente i musicisti – sono scesi in campo con campagne di sensibilizzazione, mettendo in gioco la loro popolarità per informare la gente sui rischi del contagio e promuovere comportamenti responsabili di protezione di se stessi e degli altri. Un’eco incredibile, a dire il vero, l’ha avuta innanzitutto la morte di un grande artista, dovuta proprio al Coronavirus: il sassofonista camerunese Manu Dibango, star internazionale, decano dei musicisti “negropolitani”, che non solo ha portato le sonorità africane nel mondo, ma ha proprio cambiato la musica. Il suo decesso a Parigi, all’età di 84 anni, a causa del Covid-19 è risuonato come un monito potentissimo, che ha impressionato moltissime persone in varie parti dell’Africa. E rifacendosi a un’altra icona indiscussa e insuperabile della musica africana, Miriam Makeba, un’artista di grande fascino e popolarità come Angelique Kidjio del Benin ha riadattato su iniziativa dell’Unicef la famosissima “Pata Pata”, che in lingua xhosa significa “tocca tocca”. L’invito, ovviamente, è a mantenere le distanze, senza per questo rinunciare a ballare!

C’è molto ritmo anche nella canzone di Bobi Wine, famoso rapper ugandese, che si divide tra musica e politica – è uno dei principali oppositori di Yoweri Museveni – e che insieme a Nubian Li ha inciso una canzone che è circolata moltissimo sui social: ma perché avesse un impatto ancora più grande ha lasciato libero il copyright e invitato altri musicisti a riproporla nelle loro lingue, unendosi così alla campagna #DontGoViral.

Infine, un altro grande della musica afro-mondiale, il senegalese Youssou N’Dour – che è stato anche ministro della Cultura del suo Paese – ha dato vita, insieme a una ventina di musicisti, alla campagna “Daan Coronavirus” (“Sconfiggere il Coronavirus” in lingua wolof), che si articola attorno all’omonima canzone e al relativo hastag che è diventato uno dei più popolari del Senegal. Tra gli artisti coinvolti anche il rapper cattolico Doundou Guiss, che si è impegnato in prima persona in azioni di solidarietà nei confronti delle persone colpite dalla pandemia o particolarmente bisognose: «Andare in soccorso di una persona – ha dichiarato – significa aiutarla a conservare la sua dignità». Un buon programma anche per quando l’emergenza sarà finita.

Ai concerti più recenti del virtuoso del violino tunisino Kamel Cherif ha sempre assistito il consueto nutrito pubblico appassionato del suo folk rivisitato in chiave pop. L’unica differenza è che nelle attuali esibizioni Cherif suona seduto sulla poltrona del suo salotto, oppure affacciato alla finestra del suo appartamento, mentre migliaia di fan lo seguono attraverso le piattaforme social.

Anche nel mondo arabo e in Medio Oriente, la musica ha rappresentato e continua a essere uno strumento di resistenza alle incertezze e alle restrizioni imposte dal virus, e spesso lo fa grazie all’aiuto della tecnologia. In Tunisia, proprio per fornire agli artisti uno spazio virtuale da cui raggiungere la loro audience, è nata la pagina Facebook Corona Live Music, i cui oltre diecimila membri – tra i quali cantanti molto popolari – organizzano sessioni live senza sosta. Da parte sua, il trombettista jazz franco-libanese Ibrahim Maalouf offre lezioni di musica virtuali ai suoi fan in tutto il mondo.

Ma il web ha costituito un supporto insostituibile anche per gli artisti visuali. La nota pittrice, scultrice e ceramista irachena Maysaloun Faraj dalla sua casa londinese ha aperto il gruppo Face­book “StayHome: DrawHome!” (“Resta a casa: disegna casa!”), a cui centinaia di partecipanti – già oltre 750 – sono invitati a mandare le immagini delle opere realizzate in questo periodo di emergenza, in cui rappresentano con il proprio stile appunto i loro appartamenti “visti da dentro”. Tra gli artisti coinvolti nel progetto figurano dilettanti ma anche professionisti di primo piano, come l’acclamata acquerellista siriana Etab Hreib, la coppia Oroubah Dieb e Hammoud Chantout, che prima della guerra gestivano una scuola d’arte a Damasco e ora vivono a Parigi, l’irachena Fahima Fattah e i libici Najla Shawkat Fitouri e Moham­mad Bin Lamin, noto per aver spesso messo il suo lavoro al servizio dell’attivismo sociale.

E se il fotografo turco Osman Özel ha realizzato un diario per video e immagini della sua quarantena in un dormitorio alla periferia di Istanbul, spiegando che «senza spazio, tutto questo tempo diventa insignificante», certo non mancano gli artisti mediorientali che hanno scelto di usare il proprio talento per dare una mano in questo momento di emergenza. L’iraniano Parviz Tanavoli, campione di vendite nelle aste regionali, ha ideato delle medaglie commemorative di bronzo e argento che saranno vendute a cifre comprese tra i 600 e i 1.500 dollari, per raccogliere fondi destinati al personale sanitario del suo Paese, tra i più duramente colpiti dalla pandemia.

Il celebre scultore di origini irachene Athar Jaber, attualmente basato ad Anversa, ha realizzato dieci mascherine in marmo e le ha messe in vendita a mille euro l’una: il progetto “Una maschera per la vita” fa parte di un’iniziativa di raccolta fondi dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. «Per i profughi è impossibile rispettare il distanziamento sociale», ha sottolineato Jaber per spiegare l’importanza di non dimenticare i 70 milioni di persone al mondo che vivono ammassate e in condizioni igieniche precarie.

Lavorano sulle mascherine anche i giovani palestinesi Samah Saeed, Dorgham Krakeh e Tamer al-Deeb, ma in questo caso si tratta di veri dispositivi di protezione personale su cui i tre artisti dipingono immagini colorate nel loro piccolo laboratorio di Gaza City, per poi distribuirli nei quartieri più poveri della città. «Abbiamo notato che i bambini non volevano indossare le mascherine, così abbiamo pensato di renderle accattivanti», hanno raccontato i tre artisti. Che, per sensibilizzare i loro concittadini sulle misure contro la diffusione del virus, hanno realizzato murales in centro città ma anche nel campo profughi di al-Shati, particolarmente a rischio. Sui muri di Gaza oggi campeggiano graffiti della Terra con indosso la mascherina sanitaria. In attesa di tornare a respirare a pieni polmoni.