Dai rifiuti creiamo una nuova economia

Dai rifiuti creiamo una nuova economia

SPECIALE «FRATELLI TUTTI»
Parla Sergio Sánchez, leader dei raccoglitori d’immondizia argentini, i cartoneros, sostenuti dal Papa fin da quando era arcivescovo di Buenos Aires: «Il nostro è un modello di lavoro che include e ci dà dignità»

 

«In certe visioni economicistiche, sembra che non trovino posto i movimenti che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali. In realtà, essi danno vita a varie forme di economia popolare» (Fratelli tutti, 169)

 

Nelle villas miserias che si estendono alla periferia di Buenos Aires, agglomerati di baracche flagellati dalla povertà e stretti nei tentacoli del narcotraffico, dare da mangiare alla propria famiglia è una sfida quotidiana. Un’impresa diventata ancora più ardua da quando, tra i vicoli di terra battuta dove scorrono le fogne a cielo aperto, si è infiltrata “la peste”, come la chiama la gente di qui: la pandemia di Coronavirus i cui effetti si sono abbattuti in modo particolarmente duro sui tanti lavoratori informali – spesso stranieri o migranti interni -, tra cui quelli che sbarcano il lunario raccogliendo e differenziando la spazzatura della metropoli.

Sono i cartoneros, abituati a sciamare quotidianamente con i loro carretti e furgoncini verso il centro città, anche a trenta chilometri dalle misere casupole dove le famiglie vivono ammassate, per occuparsi dei rifiuti di tre milioni di abitanti, in un Paese in cui la raccolta differenziata è ancora rara e l’immondizia viene smaltita stipandola sottoterra. Circa centomila persone in tutto il Paese, diverse migliaia nella capitale, di cui solo a una parte, grazie a innumerevoli battaglie, è stato riconosciuto un sussidio per il servizio pubblico svolto separando cartone, plastica, metallo e portando i diversi materiali agli impianti di riciclo.

«Di questi tempi, però, abbiamo il permesso di lavorare solo due o tre giorni alla settimana, il che per molti significa non mangiare tutti i giorni…», confessa Sergio Sánchez, presidente della Federazione dei cartoneros argentini, balzato agli onori delle cronache quando Papa Francesco lo invitò alla Messa d’inaugurazione del Pontificato nel marzo del 2013. Da Villa Fiorito, nota per aver dato i natali a Diego Armando Maradona, Sergio volò in Vaticano con indosso la sua divisa da raccoglitore d’immondizia, proprio come avrebbe fatto due anni dopo quando fu sempre l’amico Bergoglio a battezzare il piccolo Francisquito, ultimo nato della famiglia Sánchez (quattro figli, di cui tre femmine).

Ma andiamo per ordine. Come è diventato cartonero?
«Tutto iniziò dopo la grave crisi economica che colpì l’Argentina nel 2001. Lavoravo come camionista ma il titolare dell’azienda fallì e io persi il lavoro. Fu allora che, dopo essermi scervellato su come mantenere la mia famiglia senza cadere nella trappola della criminalità, decisi di dedicarmi alla raccolta del cartone per il riciclaggio. All’inizio giravo con un carretto molto vecchio per le strade di Buenos Aires, dal mattino presto a sera inoltrata. Poi mi prestarono un vecchio camioncino, che in seguito, con molta fatica, riuscii ad acquistare. In quel periodo incontrai un gruppo di attivisti che lottavano per i diritti dei lavoratori informali e che cominciarono a fare riflettere noi cartoneros su come avremmo potuto migliorare le nostre vite. Per esempio, noi dovevamo pagare per venire a lavorare in centro città, semplicemente per attraversare un ponte con un vecchio mezzo, e loro ci dicevano: “Non è giusto, dovete opporvi”. Fu un anno intenso di presa di coscienza, confronto, timori e speranze, finché capimmo che, mettendoci insieme, avremmo davvero potuto portare avanti un grosso cambiamento».

E cosa faceste?
«Iniziammo a organizzarci a poco a poco. In principio eravamo pochi e avevamo molti problemi con la polizia, che sequestrava i nostri veicoli, così quando uno di noi si trovava in difficoltà tutti andavamo a sostenerlo, per evitare che gli portassero via il camioncino o la merce. Finché, con il tempo, diventammo più numerosi e formammo una prima cooperativa, che chiamammo “L’alba dei cartoneros”. Cominciammo a partecipare a incontri con le autorità municipali, rivendicando i nostri diritti. Spesso scoppiavano disordini, blocchi sui ponti per accedere al centro, la polizia ci picchiava e ci arrestava, finché riuscimmo a far capire all’amministrazione che eravamo lavoratori e che la nostra opera di recupero della spazzatura era un vantaggio per la città. Così, oggi, siamo circa 7 mila persone che lavorano al riciclaggio del cartone in collaborazione con il Comune».

Qual è il contesto delle villas miserias, in cui è nato il movimento?
«Si tratta di luoghi, come il mio barrio di Villa Fiorito, nella zona sud della Grande Buenos Aires, in cui mancano case adeguate e servizi. Io all’inizio abitavo in una baracca di lamiera e cartone finché scelsi di dedicarmi al recupero della spazzatura e cominciai a risparmiare un po’ di denaro. Come me hanno fatto molti altri abitanti del quartiere e piano piano siamo riusciti a migliorare le nostre vite: alcuni hanno ottenuto un alloggio tramite un piano statale, pagandolo mensilmente, altri, come nel mio caso, attraverso progetti di autocostruzione associata. Ci siamo posti l’obiettivo di difendere insieme la dignità delle persone e siamo riusciti a far evolvere in meglio il barrio, anche grazie all’esperienza maturata nella lotta per i nostri diritti. In un quartiere che era una pozza d’acqua dove veniva smaltita la spazzatura abbiamo ottenuto l’asfalto nelle strade, la scuola e tanti altri benefici».

Qual è il modello organizzativo su cui si basa il vostro movimento?
«È un modello che abbiamo costruito nel tempo, con l’esperienza. All’inizio ci siamo organizzati informalmente, poi abbiamo fondato il Movimento dei Lavoratori Esclusi (Mte) che è diventato un punto di riferimento per i tanti che si sentono dimenticati e privi di risorse. L’Mte fornisce gli strumenti per iniziare a lottare per i diritti di ogni lavoratore in qualunque settore, non solo quello del riciclaggio del cartone. Ci siamo impegnati molto insieme alle sarte e ai venditori ambulanti, per sensibilizzarli e aiutarli a mobilitarsi, finché i riciclatori hanno accettato di includere nella loro organizzazione anche gli altri settori esclusi dal sistema. Oggi rappresentiamo un’intera economia popolare, che comprende quasi tutti i rami dei lavoratori informali. Abbiamo costituito una federazione delle diverse cooperative, la Federación argentina de Cartoneros, carreros y recicladores, per coordinarci, avere più potere contrattuale e ottenere maggiori benefici. Oggi riuniamo gran parte delle cooperative di Buenos Aires e molte persone della provincia».

Come è nata la vostra amicizia con Papa Francesco?
«Quando era arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Bergoglio è stata una persona molto importante per noi. Era davvero un pastore al fianco degli esclusi. Ricordo il giorno in cui lo incontrammo per la prima volta. Nel barrio di Flores era morta una famiglia di sarte a causa di un incendio scoppiato nel locale in cui erano state rinchiuse dal datore di lavoro. Monsignor Bergoglio venne molto umilmente per dire una Messa e noi cartoneros andammo ad aiutarlo a organizzare la celebrazione. Fu un momento molto significativo, così come quando lui veniva a battezzare i migranti, una cosa che di solito era impedita dalla burocrazia. Da vescovo, durante alcune Messe che celebrava una volta all’anno, benediceva il nostro lavoro, i nostri mezzi, le sarte e i loro vestiti, benediceva i braccianti e tutte quelle persone che erano escluse. Da allora siamo diventati suoi amici, perché ci trattava da pari a pari, non gli importava se eri umile, se eri buono o cattivo. Per lui eravamo tutti uguali».

E come reagiste quando fu eletto Papa?
«Ci arrivò la notizia mentre stavamo lavorando e ne fummo felicissimi, ma per metà eravamo anche tristi, perché capimmo che la sua missione non sarebbe più stata al nostro fianco, almeno fisicamente. Ma Francesco non ci ha mai dimenticato, al contrario. Ha sostenuto noi e gli altri movimenti sociali che lottano per le “tre T” – tierra, techo, trabajo, cioè terra, tetto e lavoro – e durante uno degli incontri mondiali in Vaticano abbiamo avuto la benedizione più bella: siamo entrati a San Pietro con un carretto e un sacco di cartone, insieme ai contadini, ai venditori ambulanti, alle vittime di lavoro forzato. Tutti con le nostre bandiere. Il Papa ha aperto le porte della Chiesa a quelli che la società scarta, a chi lotta per la dignità attraverso il lavoro. A noi cartoneros ha lasciato in eredità tante lezioni di vita, oltre a importanti punti di riferimento nei sacerdoti che vivono al nostro fianco nelle villas miserias».

Nella sua ultima enciclica il Pontefice è tornato a elogiare il modello dei movimenti popolari, definendoli «seminatori di cambiamento»: che cosa avete da insegnare al mondo dell’economia?
«Per gli Stati, chi è coinvolto in forme di economia popolare è materiale di scarto. Papa Francesco, al contrario, sottolinea che noi, attraverso il lavoro, combattiamo per la vita. I movimenti sociali aspirano a un’organizzazione che sostituisca un modello di esclusione con uno di inclusione. Noi cartoneros, poi, svolgiamo un ruolo importante di custodia del creato, spingendo gli amministratori a scommettere sull’ecologia, su una svolta verde. Ecco perché, oggi, chiediamo alla municipalità di Buenos Aires di farci tornare a operare a tempo pieno, visto che le nostre cooperative sono organizzate a sufficienza per garantire il lavoro in sicurezza anche in tempo di pandemia. Il nostro è insieme un messaggio di inclusione sociale e di cura del pianeta».