Nel deserto sulle orme di frère Charles

Nel deserto sulle orme di frère Charles

SPECIALE “FRATELLI TUTTI”
Il vescovo del Sahara, John MacWilliam, riflette sul significato di fraternità, alla luce dell’esperienza del beato Charles de Foucauld, che visse gli ultimi anni a Tamanrasset facendosi “fratello universale”

 

Charles de Foucauld «andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano» (Fratelli tutti, 287)

 

La recente pubblicazione dell’Enciclica del Santo Padre, Fratelli tutti, apre a noi tutti nella Chiesa – e in verità al mondo intero – una via per riflettere sul significato più profondo della “fraternità” nel contesto della nostra vita missionaria. Ci sono molte interpretazioni di cosa può significare essere un “fratello” (o una “sorella”). Ovviamente c’è il legame di sangue di chi è nato dagli stessi genitori, ma questo, di per sé, ha poca importanza. La maggior parte di noi ha solo uno o due fratelli e speriamo che esista un forte amore fraterno. Ma la storia e la tradizione spesso mostrano il contrario: Caino e Abele, Lea e Rachele, Romolo e Remo, il figliol prodigo e suo fratello… A volte non siamo mai veramente usciti dalle rivalità infantili nella nostra famiglia, a volte cadiamo preda dell’avidità per l’eredità, a volte altri “amori” si intromettono. Quest’immagine della fratellanza – come qualcosa per cui lottare – è valida solo se è veramente vissuta senza gelosie, ingiuste rivalità o qualsiasi altra forma di rifiuto.

Forse dovremmo iniziare a cercare di imitare il rapporto perfetto tra il Padre e il Figlio nella Santissima Trinità: la paternità e la filiazione vissute come dovrebbe essere. Gesù ci invita tutti a essere “figli di Dio”, il che significa essere suoi fratelli e sorelle, nonché fratelli e sorelle l’uno dell’altro. Questo va bene per noi cristiani, ma che dire di quelli che non conoscono il Padre? Anche loro sono nostri fratelli?

Fratelli tutti, scrive il Papa. Nessuna eccezione. Anche quelli che non si sentono realmente parte della nostra stessa “famiglia” sono nostri fratelli e sorelle, perché Gesù non ha rifiutato nessuno e nemmeno noi dovremmo farlo.
Non sempre è facile. Abbiamo le nostre differenze, a volte sono estreme. C’è un proverbio in arabo, basato sul Corano, che dice: «Sì alle differenze, no alle controversie». Lo troviamo anche nella Bibbia: «Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui» (Mt 5,25). Com’è vero! Ma come possiamo essere uniti o tornare a riunirci con i nostri fratelli e sorelle? Possiamo davvero essere “fraterni”?

Ebbene, la risposta a ciò – come accade tante volte per noi cristiani – possiamo trovarla sulle labbra di Nostro Signore Gesù: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Sì, essere tutti figli dello stesso Padre significa essere “fratelli” gli uni gli altri nella grande famiglia divina con Gesù. Quindi dobbiamo essere operatori di pace, prima di tutto. Ma non basta semplicemente vivere in pace. Dobbiamo fare pace. Dobbiamo lavorarci. Dobbiamo riparare le crepe, curare le ferite, nutrire le radici e anche amare i nostri nemici. Dobbiamo pregare per i nostri persecutori. A volte dobbiamo essere fermi, persino energici, con i nostri fratelli. Spesso dobbiamo essere umili, per ammettere la nostra parte di responsabilità per le divisioni e le controversie. Di tanto in tanto dobbiamo offrire entrambe le mani ad altri due fratelli per riunirli, per assorbire l’odio che li tiene separati e per trasformarlo in amore fraterno. E dobbiamo sempre voler essere fratelli, nel vero senso della parola.

Qui in Nordafrica, gli uomini si rivolgono raramente l’un l’altro chiamandosi “signore”, come spesso accade altrove. Usano dirsi Ya khouya, che significa “fratello”. Certo, si riferisce principalmente ai fratelli nella fede, in questo caso musulmani, o ad amici intimi, ma non c’è nulla che impedisce ad altri di dirlo nel senso di “fratelli nell’umanità”. Non è questo che ci chiede Papa Francesco?

Quest’an­no è stato riconosciuto il miracolo attribuito all’intercessione del beato Charles de Foucauld, che ha trascorso i suoi ultimi quindici anni nel Sahara algerino tra persone diverse da lui in tanti modi. Viveva da solo come eremita cristiano tra coloro per i quali l’islam, la famiglia e la tribù erano l’essenza stessa della propria esistenza. Era un membro di una nazione e di un popolo che aveva colonizzato l’Algeria con la forza e mantenne stretti legami con i suoi ex “fratelli ufficiali” dell’esercito francese. Eppure nessuno avrebbe potuto essere più fratello di lui per coloro tra i quali viveva. «Voglio che tutte le persone qui, cristiani, musulmani, ebrei, non credenti, mi considerino un loro fratello, il fratello universale. Cominciano a chiamare la mia casa “la fraternità” e questo mi rende felice», scrive a un amico nel 1902.

Possiamo anche noi chiamare le nostre case “fraternità”? Sono luoghi in cui chiunque viene accolto, quasi fosse un “membro della famiglia”? Non solo le case costruite in mattoni o in legno, ma le case che sono il nostro cuore, fatte della stessa carne e sangue del sacro cuore di Gesù. È qui che dobbiamo essere più accoglienti, è qui che l’“amore del prossimo” deve essere più profondamente radicato.

Alcune persone potrebbero obiettare che l’amore fraterno universale è impossibile e che il mondo non è fatto così. Facile da capire quando guardiamo alla storia e alla realtà globale in cui viviamo oggi, con tutto il suo egoismo e le sue rivalità. Ma è davvero impossibile? No! Sia i Vangeli (Lc 1,37) che il Corano (S 19,21) ci dicono che nulla è impossibile a Dio, ed è il suo Spirito che dimora in noi quando cerchiamo di fare l’impossibile amando il nostro “inamabile” fratello. Questa è la fraternità che ci offre; questa è la fraternità che dovremmo abbracciare.

 

John MacWilliam
vescovo di Laghouat-Gardhaïa (Algeria)