Yemen a pezzi

Yemen a pezzi

A un anno dall’uccisione di quattro Missionarie della Carità e dal rapimento di un salesiano, lo Yemen continua a sprofondare in una guerra di cui nessuno parla. Viaggio in un Paese dimenticato

 

Ad Aden, lì dove il Golfo è più dolce, un centinaio di persone affollano felici una spiaggia: i ragazzini nuotano sguazzando; gli adolescenti improvvisano dei mini-rally su moto due posti giallo shocking assemblate nelle officine di casa; i giovani maschi passeggiano in futa (la gonna per uomini simile a un lungo pareo, originaria delle tribù dell’Hadramaut), tenendosi per mano; le donne in hjiab, abaya, occhiali da sole alla Jackie Kelly e pantaloni di tessuto waterproof fanno la spola tra la spiaggia e l’acqua, tra il capannello della famiglia e delle amiche e i bambini che fanno i loro primi passi nell’acqua. Il sole è verticale ma dolce, non così impietoso come ti aspetteresti. In questo fazzoletto di terra, Aden non ha cambiato pelle. Da qui non penseresti mai che lo Yemen sia un Paese in guerra, se non fosse per alcuni minimi dettagli: i sacchetti rossi e blu della spazzatura in nylon sottilissimo, buttati un po’ dappertutto, sono assai più della norma.

Ma a pochi chilometri da qui tutto cambia: nel poco più lontano porto di Mokka, le truppe governative e i ribelli houti hanno appena finito di combattere intensamente per il controllo di uno degli sbocchi al mare più strategici per lo Yemen, ultimo colpo di reni della battaglia che infuria sulla costa Sud del Paese, mentre il resto si gioca, adesso, sulla linea del fuoco della città di Taiz e la regione del Marib, appena sotto l’ex capitale Sana’a. Ma senza andare troppo lontano, ad appena una manciata di chilometri, nel centro della città, la tensione è alta. Come nell’area intorno all’ex casa di accoglienza delle Suore di Carità, laddove, un anno fa, il 4 marzo 2016, un commando armato vi fece irruzione, e uccise brutalmente un gruppo di Missionarie della Carità, l’ordine fondato da Madre Teresa, compresi gli ospiti della casa, disabili e anziani della comunità locale, per un totale di 14 persone. Infine rapì padre Tom Uzhunnalil, il salesiano indiano che guidava la piccola comunità. L’area è inaccessibile, esattamente come lo sono ad Aden le strutture militari, i campi di addestramento, i palazzi delle istituzioni del governo lealista. Impossibile fotografare senza permessi, pena il carcere; impossibile trovare testimonianze di chi ha visto o sentito perché la paura è tanta.

Un residente che vuole rimanere anonimo, dice: «Questa città è altamente insicura. Meglio non mostrarsi, non pronunciarsi. Non si sa mai cosa può succedere. Siamo in balìa dei terroristi». Soprattutto da quando è stato diffuso on line, alla vigilia di Natale 2016, il primo video del sequestro. Lì padre Tom appare emaciato, con una lunga barba e parla in inglese. Dichiara di essere stato rapito proprio a causa della sua attività missionaria in Aden. Si appella al primo ministro, al capo di Stato e al capo dell’episcopato indiano, al Papa cattolico, ai vescovi, al vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, mons. Paul Hinder, a cui chiede di trattare con i rapitori, prima che la sua salute si deteriori definitivamente. Di fatto, a oggi, non ci sono versioni univoche sull’identità dei rapitori. Il governo yemenita e i residenti parlano di un gruppo qaedista, sui media indiani circola la convinzione che si tratti di una wilaya (provincia) di Stato islamico, di stanza ad Aden, proprio per le brutali modalità di esecuzione delle vittime, decapitazione compresa, così come sono state riferite da sister Sally, unica superstite al massacro. Di fatto, nessuno ha rivendicato l’azione e tuttora il luogo di detenzione di padre Tom e l’identità del gruppo criminale non sono noti ufficialmente. Ma un dato è certo, ed è sotto gli occhi di tutti gli yemeniti: al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) «oggi è più forte che mai».

Secondo l’International Crisis Group (Icg), il think tank di politica internazionale basato a Bruxelles, Aqap prospera «nel collasso generalizzato dello Stato, parallelamente alla crescita del settarismo; essa è in cerca di alleanze mutevoli, approfitta dei vuoti di sicurezza e si arricchisce in una economia di guerra fiorente».

Aqap, in sostanza, si è evoluta in una forza insorgente con l’ambizione e la capacità di governare il territorio, estremamente pragmatica e attenta ai problemi locali. Ciò significa che, insieme ai suoi affiliati locali, probabilmente sopravvivrà all’aumento globale rapido di Stato Islamico, che ha perseguito un approccio più aggressivo, ma che non attecchisce ideologicamente. Secondo Icg «il proseguimento di un conflitto sempre più fratturato migliora notevolmente la capacità senza precedenti di Aqap per espandere il supporto locale e accumulare risorse finanziarie e militari».

Una delle alleanze più efficaci che Aqap ha sviluppato nel Sud del Paese, ad esempio, è quella con il movimento di liberazione del Sud, Hirak. Non è un accordo ufficiale e i quadri di Hirak lo negano. Ma è evidente – per chi come noi ha attraversato su strada i quaranta chilometri che separano il Sud del Paese dalla ex capitale Sana’a – che nelle aree delle piste sterrate che si inoltrano nell’Hadramaut, i check point a bandiera Hirak siano frequentati da miliziani qaedisti delle tribù locali. Così come sui villaggi della costa Sud, tra il confine con il Dofar e la città portuale di Mukalla, appena “liberata” dai lealisti e già conquistata da al-Qaeda, i check point si animino di uomini armati fino ai denti con pick up e auto che mostrano le immagini di Saddam Hussein, e i simboli del partito baathista iracheno. È un segno – quantomeno – di affiliazione ideologica alla resistenza sunnita post-Saddam in Iraq, una costola della quale optò per il sostegno all’allora nascente Stato islamico.

Ahmed al Waesaij, giornalista investigativo yemenita per Arij (unione dei giornalisti investigativi arabi), di stanza ad Aden , traccia un profilo della città oggi: «La guerra ha reso Aden una città di estrema pericolosità. Di fatto, il governo ha un controllo limitato sulla sicurezza e l’area è totalmente porosa alle infiltrazioni criminali: che esse siano de facto parte integrante di al-Qaeda – e se ne ha la certezza quando colpiscono check point o strutture militari perché Aqap rivendica gli attentati – o auto-affiliati a Isis o gruppi criminali indipendenti, in ogni caso amplificano il terrore degli abitanti e destabilizzano totalmente la vita nella città, già ampiamente provata dal primo anno di guerra, con scontri al porto, nell’aeroporto e nei quartieri che erano stati raggiunti dai ribelli houti. C’è anche l’ipotesi, sembra comprovata dall’intelligence, che molti qaedisti si siano già trasferiti dalla zona del Siraq allo Yemen via mare».

Nei due anni di guerra, il conflitto ha causato più di 7.300 morti e 39 mila feriti: escludendo i bombardamenti, i morti per scontri tra i civili nelle città sono stati più numerosi ad Aden e Taiz. Amira al Sharif è nata ad Aden ma risiede a Sana’a. È tornata nella città di origine per portare avanti un progetto fotografico sulla vita dei civili in guerra: «Questa città è sensibilmente mutata: difficilissimo trovare un appartamento in affitto, difficile muoversi in libertà per le strade; la sensazione di trovarsi sotto un assedio costante o a estremo rischio attentati c’è; si vive alla giornata. Ci sono anche dei lati positivi: trovo molte più persone ogni giorno in spiaggia, persone di tutte le età. Quando non sai cosa ti riserva il domani, il presente ha più sapore, nonostante il dolore di avere perso un familiare. Anche nonostante la fame».

Dopo due anni di guerra, nel Paese più povero del Medio Oriente, la fame rischia di completare l’opera che la guerra non ha portato a termine, soprattutto nel Nord, completamente isolato dall’arrivo di aiuti umanitari e movimenti di uomini e mezzi: secondo il Programma alimentare mondiale, 14.4 milioni di persone sono a rischio e già 7 milioni sono in disperato bisogno di aiuti alimentari. Tra i marciapiedi della città di al Gheyda, uno snodo fondamentale di merci, viaggiatori e rifugiati dal Corno d’Africa, sulla strada verso il Nord del Paese, sono più le famiglie che chiedono l’elemosina che coloro che acquistano e commerciano: quasi sempre sono persone con origini africane, dalla pelle scura, altrimenti detti muhamasheen che vuol dire letteralmente “quelli ai margini”.

Sono loro a pagare il tributo più alto alle vittime della malnutrizione che in Yemen colpisce, da prima della guerra, un bambino su cinque. Nell’ospedale al-Thoura di Hodeida, sulla costa nord-ovest del Paese, nell’area di controllo dei ribelli houti, nella sezione per la cura degli infanti malnutriti, un bambino di quattro mesi, ridotto a scheletro, è morto sotto i nostri occhi. La nonna, una muhamasheen, ha ricomposto il corpo con precisione nella copertina di ciniglia. Poi, ha raccolto le sue cose: un paio di sacchi con indumenti e medicine. Ha ripreso in braccio il nipote. Ci ha detto senza un moto esterno di pietà, con gli occhi asciutti: «Questo è il secondo morto in un meno di un anno».