Isole greche, l’incubo del virus nei campi profughi

Isole greche, l’incubo del virus nei campi profughi

Sovraffollamento e condizioni igieniche disperate trasformerebbero l’arrivo della pandemia in un inferno per i 40 mila richiedenti asilo costretti negli hotspot dell’Egeo. L’appello all’evacuazione lanciato dalle organizzazioni umanitarie e dall’Unione europea. Che però non si muove

Un rubinetto ogni milletrecento persone, mancanza di sapone, famiglie intere costrette a dormire in meno di tre metri quadrati. Non è difficile immaginare che, se il Coronavirus arrivasse nei campi profughi sulle isole greche, lo scenario sarebbe apocalittico. Le misure basilari di prevenzione del contagio, come lavarsi spesso le mani o rispettare forme di distanziamento sociale, sono una pia illusione per i circa 40 mila richiedenti asilo stipati negli hotspot di Lesbo, Chio, Samo, Lero e Kos, progettati per accogliere al massimo seimila persone. Non parliamo della possibilità di trattare adeguatamente dal punto di vista sanitario eventuali malati, vista anche la carenza di personale medico.

«Sarebbe impossibile contenere un’epidemia qui», ha dichiarato Hilde Vochten, coordinatrice di Medici senza frontiere in Grecia, denunciando che «a oggi non abbiamo visto un piano di emergenza credibile per proteggere e trattare le persone nell’eventualità che il virus si diffondesse». E questo nonostante un primo caso di positività sia stato registrato sull’isola di Lesbo (una donna greca ora in isolamento).

Per la massa di disperati bloccati nel limbo dei campi – tra cui anziani, malati cronici, bambini e minori non accompagnati, donne incinte, disabili – la minaccia del Covid-19 è solo l’ultima delle terribili sfide che si preparano ad affrontare.
Fuggiti da Paesi come Afghanistan, Siria, Iraq ma anche dall’Africa subsahariana, i richiedenti asilo, in seguito al controverso accordo tra Unione europea e Turchia del 2016, si sono visti sistematicamente negare la possibilità non solo di essere rilocati in altri Paesi europei ma persino di spostarsi sulla terraferma greca fino al vaglio delle proprie domande (il che può richiedere oltre un anno di tempo). Il loro numero sulle isole, dunque, è andato progressivamente aumentando, dando origine a condizioni umane e sanitarie intollerabili, carenza di sicurezza, incidenti – come l’incendio che poche settimane fa ha causato la morte di una bambina nel campo di Moria – forme di violenza e crescente marginalizzazione.

La situazione è ulteriormente precipitata a fine febbraio, quando il presidente turco Erdoğan, in un nuovo episodio del braccio di ferro con l’Europa, ha aperto le frontiere e spinto i profughi ammassati al confine greco a riversarsi in territorio ellenico. Ma mentre migliaia di persone, per terra o per mare, raggiungevano l’agognato suolo europeo, la reazione della guardia costiera e delle forze dell’ordine greche è stata durissima, così come quella delle squadre di nazionalisti anti-migranti e di gran parte della stessa popolazione locale, esasperata. Numerosi gli episodi di violenza, di intimidazione al personale delle ong e vandalismo ai depositi di aiuti umanitari.

Ora, la minaccia del Coronavirus delinea uno scenario ancora più drammatico. Per questo, ventuno organizzazioni umanitarie – tra cui Amnesty International, Human rights watch e il Jesuit refugee service – hanno ora chiesto al governo greco di ridurre immediatamente la congestione di migranti nei centri di accoglienza e identificazione, sottolineando tra l’altro che «costringere i richiedenti asilo a rimanere in una situazione che viola i loro diritti umani e la loro dignità non può essere giustificato da alcuna ragione sanitaria». Il governo Mitsotakis, infatti, nel timore della diffusione dell’epidemia, ha disposto la quarantena degli hotspot, con migliaia di persone intrappolate al loro interno. Previsti anche, oltre alla sospensione di tutte le attività e la limitazione per due settimane della fornitura di servizi essenziali da parte delle ong, rigidi controlli sia sui movimenti in uscita dalle strutture, persino per reperire alimenti, sia sulla circolazione interna.

Nei giorni scorsi l’Unione europea ha chiesto al governo di spostare sulla terraferma le persone più a rischio di contrarre il virus, ma Atene ha finora respinto l’appello, sostenendo che la possibilità di contagio sarebbe minore sulle isole. All’inizio del mese, l’Europa aveva promesso di accogliere 1.600 minori non accompagnati dai campi, ma il progetto è bloccato proprio a causa della pandemia, così come il piano di offrire 2.000 euro a ogni migrante disposto a rientrare volontariamente nel Paese d’origine.

Ma c’è chi non si rassegna. Pietro Bartolo, storico medico di Lampedusa oggi europarlamentare, ha dichiarato: «Sto lavorando, insieme ai miei colleghi, per fare in modo che le persone più fragili vengano evacuate sulla terraferma in Grecia ma anche in Europa. C’è stata una buona risposta da parte di parecchi Paesi, che si sono messi a disposizione per accoglierle, ovviamente con gli accorgimenti necessari». Bartolo ha aggiunto che «non possiamo dimenticare quelle persone rinchiuse nei lager di Lesbo, di cui non si parla più, quei bambini che hanno perso tutto e non si sentono più esseri umani, tanto da tentare il suicidio».
In attesa di una decisione di civiltà e umanità, i residenti dei campi hanno cominciato a prepararsi al peggio. A Moria, alcuni migranti con l’aiuto della ong Team humanity stanno cucendosi mascherine protettive, mentre a Samo i bambini hanno realizzato poster educativi sull’importanza di lavarsi le mani e osservare alcune basilari norme igieniche. Per chi può.