Gheddo: «Sulle orme dei martiri»

Gheddo: «Sulle orme dei martiri»

È arrivato in libreria «Inviato speciale ai confini della fede», il nuovo libro in cui padre Piero Gheddo ripercorre la sua un’avventura umana, missionaria e giornalistica unica. Dal volume pubblichiamo un brano del capitolo sui suoi incontri con i martiri missionari di oggi

 

Oltre 80 Paesi visitati per incontrare sul campo popoli, culture, missionarie, missionari, volontari; più di 100 i libri scritti per raccontare l’incontro con le genti del Sud del mondo e tanti testimoni di solidarietà; numerosi i colleghi di cui è stato amico, confidente e collaboratore, da Indro Montanelli a Enzo Biagi. Molti gli scoop giornalistici come il racconto fotografico della guerra civile in Angola nel 1975 o i «contro-reportage» dal Vietnam durante il conflitto degli anni Settanta.

C’è tutto questo, e molto di più, nel nuovo libro di padre Piero Gheddo, «decano» dei missionari giornalisti d’Italia, per 40 anni direttore del mensile Mondo e Missione, fondatore dell’agenzia stampaAsiaNews. Il suo libro Inviato speciale ai confini della fede. La mia vita di missionario giornalista (Editrice missionaria italiana, pp. 224, euro 14, scritto insieme a Gerolamo Fazzini e con la prefazione di Andrea Tornielli) è in libreria da questa settimana.

Un testo ricco di storie, avventure e aneddoti gustosi. Come la decisione dei superiori del Pime di espellere il giovane Gheddo dal suo istituto religioso perché – da seminarista – andò ad acquistare la carta necessaria per stampare un giornalino missionario senza permesso. Oppure, vicenda molto più eclatante, la «censura» dell’Osservatore romano a due interviste realizzate da Gheddo durante il Concilio Vaticano II (padre Piero seguì l’assise conciliare per conto del quotidiano della Santa Sede): per intervento della Segreteria di Stato non vennero pubblicate il colloquio con il cardinale Agostino Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani, e quello con il vescovo brasiliano Hélder Câmara, presule di Recife, paladino dei poveri in terra latinoamericana. E poi racconti autobiografici molto personali, come quella volta che in India, nel 1978, scampò a un attentato aereo che costò la vita a centinaia di persone. Tantissimi i reportage realizzati da Gheddo da ogni parte del mondo: Cuba (1970), Somalia (1978, 1994), la Cina dei cristiani negli anni Settanta, la dittatura in Argentina negli Anni Settanta, i genocidi in Ruanda e Burundi (1994).

Dal volume pubblichiamo qui sotto un brano del capitolo dedicato agli incontri con i martiri di oggi e con i frutti del seme gettato da quelli di ieri.

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Il martirio è una realtà difficile da presentare a una cultura come la nostra, oggi in Italia. Il martirio imbarazza perché l’uomo vuole sfuggire al dolore, alla sofferenza. Perché il sangue e la persecuzione sono indispensabili alla missione di Cristo? Perché, come dice la lettera agli Ebrei (9, 22), «senza effusione di sangue non vi può essere redenzione»: si tratta della «via della croce», «scandalo per i giudei e follia per i pagani», come scrive san Paolo (1 Cor. 1, 23). La salvezza viene dalla Croce di Gesù e dalla sua Risurrezione. Un mistero che è ostico anche per noi, cristiani moderni, abituati a pensare che si possa risolvere tutto con il metodo democratico, andando d’accordo con tutti ad ogni costo. No, il peccato, e il demonio che ne è l’ispiratore, si vincono con la preghiera, la grazia di Dio, il martirio, la Croce.

I cristiani perseguitati e martiri sono corredentori dell’umanità. Salgono consapevolmente sulla Croce con Cristo, partecipano alla sua Passione. Com’è scritto nella Lettera ai Romani, senza partecipazione alla Passione di Cristo non c’è resurrezione: «eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom. 8, 17).

La lezione più forte che ci viene dalla testimonianza dei cristiani perseguitati e martiri è di impegnarci ad essere testimoni autentici di Cristo qui dove viviamo. La domanda che oggi tutti i battezzati, io per primo, dobbiamo farci, quindi, è questa: cosa conta il Vangelo nella mia vita? Sono veramente innamorato di Cristo oppure la fede in me è stanca abitudine? Il Vangelo è un’esperienza globale, totalizzante: Gesù deve diventare non solo una pia aspirazione e una consolazione psicologica nei momenti difficili, ma il modello divino-umano a cui mi ispiro e da cui traggo forza e coraggio per vivere da cristiano, nonostante le mie debolezze e i miei peccati.

 

Woodlark: il fallimento e la gloria

All’origine del Pime, c’è una pagina di martirio. Teatro di quella vicenda, a metà dell’Ottocento, un’isoletta nell’Oceano Pacifico, ancor oggi quasi sconosciuta, di una bellezza incantevole: Woodlark. Nel 1980 sono stato a Woodlark e ho fotografato i luoghi del martirio del beato Giovanni Mazzucconi (1826-1855), beatificato da Giovanni Paolo II il 19 febbraio 1984. Con me c’era un confratello di Hong Kong, padre Giancarlo Politi, e tre missionari australiani del Sacro Cuore che erano da una vita nella diocesi di Alotau, ma non avevano visitato Woodlark: in nave ci vogliono due-tre giornate di viaggio, in aereo un’ora e mezzo!

Siamo atterrati su una striscia di terreno che era il campo d’aviazione degli americani in guerra contro il Giappone, mantenuto libero per i funzionari della Papua Nuova Guinea. Conservo una foto, in cui sono circondato da una dozzina di ragazzini con gli occhi spalancati e il volto festoso; mi toccano perché, forse, pensano che sia un fantasma. In quella isolatissima isola di Woodlark, non avevano mai visto un bianco.

Abbiamo visitato i luoghi dei nostri missionari. Il villaggio si raggiunge in un quarto d’ora di cammino dalla baia, in un sentiero nella lussureggiante vegetazione tropicale, è ancora con capanne di legno, bambù e paglia. Il momento più commovente la celebrazione della Santa Messa in una scuoletta prefabbricata di legno con tetto di lamiera nella baia di Guazup dove venne martirizzato padre Mazzucconi. La prima missione del Pime, avventurosa e fra «i popoli più lontani e abbandonati», come chiedevano i nostri primi missionari, è simbolica dello spirito dell’istituto missionario milanese, spesso mandato alle frontiere estreme della Chiesa e del mondo.

Nella Somalia di Annalena Tonelli

Ho visitato due volte la Somalia. Nel 1978 sono stato a Merka, dove il 22 ottobre 1995 verrà uccisa Graziella Fumagalli, medico brianzolo impegnata con la Caritas. Quella volta ho incontrato Annalena Tonelli, laica missionaria di grande spessore umano e di fede, originaria di Forlì. Aveva 35 anni e si trovava in Africa dal 1969; è stata uccisa il 5 ottobre 2003, da due sicari che le hanno sparato alla testa.

Ancora oggi ho vivo il ricordo del vescovo francescano di Mogadiscio, Salvatore Colombo (poi ucciso nel 1989) e di padre Pietro Turati, parroco a Chisimaio, che mi ha portato nell’isola di Gelib sul fiume Giuba, dove le suore missionarie della Consolata curavano i lebbrosi. L’incontro con Annalena Tonelli è stato commovente. A Merka, città totalmente islamica, non c’era un prete residente. Una volta al mese andava padre Pietro Turati a celebrare una Messa per Annalena e alcune famiglie italiane che nelle vicinanze della cittadina avevano piantagioni di frutta esotica. La volontaria italiana gestiva il dispensario medico e ospedaletto con una cinquantina di degenti e una coda di uomini, donne, bambini, in attesa. La Tonelli, gentile e sorridente con tutti, era aiutata da molte donne locali e diceva che quelle donne diffondevano nella città la novità dell’opera che era agli inizi, ma anche la Buona Notizia dello spirito evangelico. Uscendo dall’incontro con Annalena, mons. Salvatore Colombo commenta: «Questa volontaria vale tre missionari!».

Annalena Tonelli è una bella figura di donna e missionaria: aveva lasciato l’Italia nel 1969, con una laurea in legge e sei anni di servizio ai poveri in uno dei rioni poveri di Forlì. Prima di partire per l’Africa, senza una famiglia né un’organizzazione alle spalle, nel 1963 aveva contribuito a formare il Comitato per la lotta contro la fame nel mondo. Nei suoi oltre trent’anni in Africa ha vissuto in Kenya per 17 anni, prima impegnata con disabili motori e psichici, poi, dal 1976, responsabile di un progetto dell’Organizzazione mondiale della sanità per la cura della tubercolosi fra i nomadi. Abbandona il Kenya all’inizio degli anni Novanta, per salvarsi da un’esecuzione. Nel 1996 approda a Borama, nel Somaliland totalmente islamico: fonda un ospedale con 250 letti per malati di tubercolosi e di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili.

Nel 2001, due anni prima di essere uccisa, la Tonelli conosce una certa notorietà per la bellissima testimonianza nel simposio su “Il volontariato cattolico in sanità”, organizzato in Vaticano dal Pontificio consiglio per la pastorale della salute. Annalena, così umile e restia a parlare di sé, accetta di raccontarsi: «Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatré anni dopo grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così fino alla fine».

Birmania: cinque del Pime hanno versato il loro sangue

Ho scritto la storia del Pime in Birmania e leggendo le lettere dei missionari, spesso mi sono commosso fino alle lacrime, quando raccontano eroismi per noi impensabili, come fatti ordinari della loro vita. Per scrivere la biografia del martire cremasco Alfredo Cremonesi (1902-1953), di cui non è lontana la beatificazione, mi sono letto la sua abbondante corrispondenza e gli articoli che scriveva per la stampa del Pime. Ho capito perché il martirio non capita per caso, ma è un dono di Dio a chi, come Cremonesi, era già un missionario non solo virtuoso, ma eroico nella sua vita sacerdotale e missionaria. Si donava tutto alle sue tribù poverissime, rischiando diverse volte la vita per salvare villaggi e famiglie. Le conversioni a Loikaw e nella Birmania orientale vengono dai cinque martiri del Pime e dai tanti martiri fra i preti, i catechisti e i laici indigeni, ma anche da questo metodo di fare missione, vivere fra il popolo.

L’ultima beatificazione è dei due martiri padre Mario Vergara missionario del Pime di Frattamaggiore (1910-1950) e il suo catechista Isidoro Ngei Ko Lat (1918-1950), martirizzati il 25 maggio 1950 e beatificati il 24 maggio 2014. Isidoro è il primo cristiano nato in Birmania che diventa beato e questo è un forte segno per la Chiesa di Myanmar e specialmente per la diocesi di Loikaw e dello Stato di Kayah, che nell’ultimo mezzo secolo ha conosciuto un incremento straordinario di battezzati e di catecumeni. [4]

Tullio Favali, vittima innocente della violenza

Il martire del Pime che ho conosciuto a lungo di persona è padre Tullio Favali, mantovano, ucciso all’età di 39 anni nell’isola di Mindanao (Filippine) l’11 aprile 1985. Padre Favali si è fatto sacerdote dopo aver studiato e lavorato (era geometra) per molti anni: la vocazione missionaria gli era nata alla fine degli anni Settanta, quando ormai aveva superato i trent’anni e già era fidanzato, leggendo la rivista Mondo e Missione. Anzi, è entrato nel Pime dopo vari colloqui proprio con me, direttore della rivista. Ordinato sacerdote, giunge nelle Filippine nel dicembre 1983 e viene ucciso l’11 aprile 1985, poco più di un anno dopo l’arrivo in missione.

Sono stato nel villaggio del martirio, Tulunan, 10-12 giorni dopo il martirio di Tullio. Era ancora presente sulla strada in terra battuta il suo sangue versato. Il 1985 è stato l’ultimo anno della dittatura del Presidente Marcos, ormai travolto dal fallimento della sua politica totalitaria. Le Filippine erano dilaniate dalla guerra civile: da un lato l’esercito e le forze paramilitari del dittatore, dall’altro i guerriglieri di varia obbedienza, comunisti, musulmani, tribali. In mezzo il povero popolo e, dato che le Filippine sono in grande maggioranza paese cattolico, la Chiesa. Il Pime è presente proprio nell’isola di Mindanao e nelle regioni più calde delle diverse guerriglie: i nostri missionari, visitati in quell’anno uno ad uno, hanno tutti visto da vicino la morte nei massacri di interi villaggi, vendette, scontri a fuoco fra bande rivali, posti di blocco improvvisati in cui si viene uccisi per un nulla, il triste fenomeno deidesaparecidos, gente prelevata di notte senza lasciare traccia e che poi viene ritrovata cadavere con i segni delle orrende torture subite. Tutti i missionari, accusati di stare con l’una o con l’altra delle forze in gioco, hanno subìto minacce dirette, spesso sono fuggiti per non correre rischi inutili.

Padre Tullio Favali era appena giunto nelle Filippine, era un tipo estremamente dolce, pacifico, caritatevole. I pochi mesi prima del martirio li trascorre studiando le lingue locali e aiutando tutti quelli che poteva: profughi, affamati, orfani, perseguitati… Ma nel villaggio di Tulunan c’è una banda di forze paramilitari, armate dall’esercito, che si è acquistata una fama sinistra torturando e uccidendo tutti i sospetti di connivenza con la guerriglia comunista o islamica. I fratelli Manero, che capeggiano la banda, sono nemici giurati del padre Peter Geremia, il missionario del Pime che vive con padre Tullio Favali a Tulunan, perché difende la gente dai loro soprusi, li ha già denunziati e minacciati dei castighi divini. Quel giorno del martirio, 11 aprile 1985, i Manero con alcuni complici si piazzano di buon mattino a un crocicchio di strade da cui dovrebbe passare il padre Geremia: hanno giurato di ucciderlo per dare una lezione ai cattolici della zona. Ma padre Geremia ha cambiato programma, lo attendono invano.

Passano le ore, i Manero assaltano la casa di un catechista, ferendolo non gravemente. Padre Tullio, avvisato in parrocchia, subito corre con la sua moto: si avvicina ai Manero sorridente e con le mani alzate, ma viene falciato da raffiche di mitra: l’autopsia troverà nel suo corpo 21 pallottole. Così è morto il mio amico Tullio Favali. Ho toccato con le mani il suo sangue e mi son fatto il segno della Croce piangendo. Col padre D’Ambra, siamo andati a visitare in carcere il Manero killer di Tullio, portandogli il segno del perdono cristiano. Così muoiono tanti altri, vittime dell’odio e della violenza. Quale più bella fine, per chi ha fede, che morire com’è morto Cristo?

In Arakan Valley con padre Tentorio

Il 17 ottobre 2011 davanti alla chiesa di Arakan padre Fausto Tentorio è assassinato con due colpi di pistola alla testa da un uomo mascherato, fuggito su una motocicletta con un complice. Con lui sono 19 i missionari del Pime uccisi nelle missioni, tre dei quali nelle Filippine. Padre Fausto, 59 anni, era da 32 anni nell’isola di Mindanao, il «Far West delle Filippine».

Sono andato a trovare padre Fausto ad Arakan nel 1985. Viveva in una capanna dalle pareti di bambù e il tetto di lamiera. Mi fa vedere i bambù e i legni scheggiati della stanza da letto dalle pallottole sparate dall’esterno. Mi dice: «Ho dato la mia vita per Cristo e per questo popolo e sono pronto a darla di nuovo, anche se tutte le notti dormo in capanne diverse dei miei cristiani». In un documento inviato ai superiori Fausto scriveva: «Riconoscente a Dio per il grande dono della vocazione missionaria, sono cosciente che essa comporta la possibilità di trovarmi coinvolto in situazioni di grave rischio per la mia salute ed incolumità personale, a causa di epidemie, rapimenti, assalti e guerre, fino all’eventualità di una morte violenta. Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio, e offro la mia vita per Cristo e la diffusione del suo Regno».

Nel Burundi insanguinato

Nel novembre 1995 sono stato in Burundi, avevano appena ucciso due missionari saveriani, i padri Ottorino Maule e Aldo Marchiol, insieme alla volontaria Caterina Gubert, a Buyengero, 110 chilometri a sud della capitale Bujumbura. Nella sala da pranzo dei missionari a Bujumbura, un cartello richiamava il motto del santo fondatore, monsignor Guido Maria Conforti: «I tempi sono tristi, ma non si è chiuso il tempo dei prodigi. I prodigi più belli sono quelli che opera la Grazia nel regno dei cuori».

Nel silenzio assordante dei media, si consumano quotidianamente doni di sé generosi sino al sacrificio che, spesso, non hanno nemmeno l’onore delle cronache, ma fanno parte di una normalità in cui la Chiesa è sempre in prima fila. Soltanto una grande fede e l’amore autentico al destino del popolo in mezzo al quale vanno a vivere può sostenere l’esistenza dei missionari, delle suore e di tanti volontari laici italiani in Paesi dove il pericolo di un massacro è all’ordine del giorno.