Testimone e giornalista

Testimone e giornalista

«Oggi va di moda quello di denuncia: invece il giornalismo di padre Gheddo è stato quello della compassione e della condivisione». L’omelia di padre Bernardo Cervellera ai funerali

 

Pubblichiamo l’omelia tenuta da padre Bernardo Cervellera – missionario del Pime e direttore di AsiaNews, che ha lavorato per molti anni a fianco di padre Gheddo – ai funerali presieduti dal vescovo ausiliare di Milano Paolo Martinelli, sabato 23 dicembre nella chiesa di Sant’Anna Matrona.

 

La liturgia ambrosiana per il funerale di un presbitero suggerisce che il sacerdote è stato fatto simile al suo Signore Gesù Cristo e ha vissuto come Lui, insieme a Lui, la passione, la morte e la resurrezione.

Questo stretto legame di padre Piero Gheddo con il destino di Cristo mi è stato chiaro anche ieri, mentre meditavo davanti alla sua salma. La bara di padre Gheddo era stata composta e presentata all’omaggio di tutti noi nella Cappella dei martiri al Pime: la bara nel silenzio era circondata dalle foto dei 19 martiri del Pime, quasi che padre Gheddo fosse il ventesimo.

C’è quasi una punta di ironia in tutto questo. Nel Pime si discute spesso fra missionari che vivono in terra di missione e coloro che servono il Pime in patria. I veri missionari – si dice – sono quelli in frontiera, che rischiano la vita nelle difficoltà e nelle persecuzioni. Chi sta in patria è un missionario di seconda categoria: per loro è impossibile che diventino martiri. Padre Gheddo avrà fatto tante fatiche a scrivere, a viaggiare, ma non ha subito ferite mortali.

Eppure, se prendiamo il termine ”martire” nel suo significato originario, possiamo dire che padre Gheddo è stato un martire. Perché “martire” vuol dire “testimone”, “testimone di Gesù Cristo” e padre Gheddo è stato testimone di Gesù Cristo in tutto il suo lavoro, scavando nelle parole per far emergere la bellezza della Parola che è Gesù. A questo impegno egli ha dedicato tutta la vita, non lasciando alcuno spazio all’intellettualismo e al borghesismo.

In tante discussioni che abbiamo fatto insieme in passato, è emerso qualche volta il significato di essere giornalista secondo la definizione che ne ha dato padre Massimiliano Kolbe, martire ad Auschwitz, ma anche giornalista in Giappone. Egli diceva che il compito di un giornalista cristiano non è convertire le persone, ma accrescere nei lettori la stima per Gesù Cristo e per la Chiesa.

Padre Piero ha vissuto così: nei suoi scritti, nei suoi resoconti di viaggi emergeva l’importanza che la fede in Gesù Cristo ha per le popolazioni di cui raccontava la vita e le fatiche, e la stima per la Chiesa che curava le loro ferite.

Nel suo lavoro egli è stato un costruttore di ponti fra l’Occidente e l’Oriente, fra Chiesa e Chiesa. È grazie a lui che noi abbiamo potuto conoscere i karimojon dell’Uganda, la loro miseria e il loro essere vittime delle guerre africane, il grande impegno di carità della Chiesa verso di loro. È grazie a lui che noi in Italia abbiamo scoperto Madre Teresa, Helder Camara e tanti altri (Beda Griffiths, Obando y Bravo, il cardinale Jaime Sin…), venendo a conoscere le piaghe dei loro popoli, le dittature disumane, ma anche le cure offerte dalla Chiesa.

Va molto di moda il giornalismo di denuncia, in cui si critica questo e quello, ma non si muove neppure un dito per le situazioni di cui si parla; o il giornalismo del sentimento, che fa commuovere per un momento e poi si volta pagina. Quello di padre Gheddo è stato un giornalismo della compassione, della condivisione che diventa azione, come è testimoniato da tutte le campagne lanciate dal Centro Pime contro la fame nel mondo, per gli alluvionati di India e Bangladesh, per i profughi vietnamiti e cambogiani, per la pace in Libano…

Sì, possiamo dire che padre Gheddo è stato un “martire” della comunicazione perché ha testimoniato Cristo nel suo lavoro e ha donato tutta la vita, ogni minuto per questo, servendo la Chiesa. Oggi si tende a servire la Chiesa che piace, quella del proprio gruppo, del proprio partito, non la Chiesa così com’è, la Chiesa intera, la Sposa di Cristo. E infatti padre Gheddo ha servito e lavorato con tutti i Papi, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, a Benedetto XVI, a Papa Francesco. E ha lavorato e collaborato con tutti gli arcivescovi di Milano: Giovanni Colombo, Carlo Maria Martini, Dionigi Tettamanzi, Angelo Scola.

La testimonianza dipende dalla fede. E padre Gheddo è stato un uomo di fede: una fede semplice, esaltata e commossa davanti a Gesù, all’eucaristia. Una fede appresa anzitutto da suo padre e sua madre che lui stesso vedeva come “santi genitori”; coltivata con la preghiera quotidiana del breviario e del rosario, recitati quasi correndo nel cortile del Centro Pime. Egli ha mantenuto fino alla fine questa fede semplice, da bambino.

Assieme alla fede egli ha avuto una grande carità. Non vi è persona, missionario o altro che lo abbia incontrato, che sia andato via senza aver ricevuto un aiuto, piccolo o grande. Anche nel lavoro era attento alle persone attorno, ai collaboratori: il problema dell’affitto di casa, la malattia di un familiare, la gioia di una nascita erano eventi condivisi, dando all’ambiente di lavoro non la forma di una macchina burocratica, ma quella di un’opera di famiglia.

Dal giorno della sua morte, il superiore generale, il Pime, AsiaNews e Mondo e Missione somo invasi di messaggi da tutto il mondo che ringraziano per l’aiuto che padre Gheddo ha dato a loro. È come se emergesse una corrente sotterranea di rapporti, di sostegno, di vita. Un sacerdote della diocesi di Milano, ora missionario in Perù, è riconoscente per l’aiuto ricevuto a sostegno della sua vocazione; l’edicolante vicino al Pime ha ringraziato padre Gheddo perché per lui ha potuto fare qualche passo nella fede; un giovane laureato dell’università Bocconi confessa di essere sostenuto nel suo lavoro e di viverlo come una missione grazie all’amicizia con padre Gheddo.

Curiosamente la morte sembra fare spazio alla vita. Mentre ero in silenzio davanti alla salma di padre Gheddo mi ha colpito vederlo lì avvolto in una casula bianca, come se dormisse, con la bara  ricoperta di trine simili a quelle che si usavano nelle culle dei neonati tempo fa, forse nell’Ottocento. Mi sono ricordato che nelle icone orientali della Natività il Bambino è raffigurato in fasce strettissime e in una caverna, che ricordano il sudario della morte e il sepolcro, per ricordare il legame fra la nascita e la morte, ma anche quello fra la morte e la resurrezione, la nuova vita. Io credo che noi oggi stiamo assistendo a una morte, ma anche a una nuova effusione di vita.