AL DI LA’ DEL MEKONG
Una fede a portata di mano

Una fede a portata di mano

Cucina e cappella, in monastero, sono un unico cantiere, sempre aperto dove si impara a «piegare l’indolenza della materia a un disegno di bellezza interiore»

 

Qualche giorno fa, dal monastero benedettino di Dumenza, avevo descritto le mani di Andrea, alzate in preghiera, come radici tese verso l’alto a cercare altra terra, in Cielo. Di seguito guardo alle mani di un altro monaco, Giovanni, e a quelle di chi lavora nella cucina del monastero. In questi mesi ne ho apprezzato il talento! Non riuscirò invece a parlarvi di altre mani non meno importanti: quelle di Luca, che cullano la Parola, quelle di Roberto e Rupert, che scrivono icone. Quelle di Nicola ed Elia, che restaurano libri. Quelle di Pierantonio che sovente impugnano un’aspirapolvere. O quelle di … che lavano e stirano e spazzano la neve.

La vita monastica ha due fuochi: la cappella e la cucina/refettorio. Sono ambienti apparentemente diversi. In realtà si corrispondono, animati entrambi dalla stessa Grazia. Ricordo che anni fa, dovendo introdurre un gruppo di adolescenti al mistero della preghiera, chiesi di incontrarli non in cappella, ma nella cucina della casa che ci ospitava. Giustificai la scelta sostenendo che la cucina è il crocevia dell’intera famiglia o della comunità, un luogo privilegiato per le nostre relazioni. Più ancora, in cucina le nostre mani, quelle di Giovanni in monastero, quelle della mamma a casa, trasformano ciò che la terra dà, in nutrimento per la vita. In cucina/refettorio si prepara tutto per essere commensali qui in terra come in cappella si prepara tutto per essere commensali del Regno…

Ebbene, la cucina parte dalla natura delle cose perché siano trasformate in nutrimento per la vita. Così la preghiera parte dalla natura delle persone perché siano trasfigurate in Cristo. Le mani di Giovanni e le mani di Andrea giocano un ruolo importante, decisivo, trasformativo. Le prime sono mani quotidianamente impegnate a trasformare/trasfigurare la terra, la natura, i suoi frutti e i suoi limiti, in nutrimento, in vita, senza buttare nulla, anzi, facendo tesoro di ogni frammento. Nondimeno, avviene qualcosa di simile anche in cappella dove – sempre con le mani, giunte o alzate, come quelle di Andrea – si prova a trasformare la propria natura e storia, in vita di Grazia. C’è quindi un nesso che è sapienza, tra il lavoro in cucina e il lavoro in cappella. Credetemi, il primo è propedeutico al secondo! È la cucina la nostra prima cappella e, quel tavolo, il nostro primo altare. Cucina e cappella, in monastero, sono un unico cantiere, sempre aperto dove si impara a «piegare l’indolenza della materia a un disegno di bellezza interiore».[1]

Voglio però suggerire un altro passo. «Amare – sosteneva J. Lacan – significa dare quello che non si ha».[2] Sembra un paradosso: dare quello che non si ha, nutrire con la propria mancanza, con il proprio vuoto, con il proprio non-avere. L’amore infatti non attiene all’avere o al potere, ma all’essere-mancanza. Così la mancanza, a tavola e non solo, permette al nostro desiderio di rimanere aperto e di non lasciarsi saturare/ingannare dal possesso delle cose o delle persone, spinti da quell’innato e frettoloso istinto di sopravvivenza, quell’«antica fame» che abita tutti, così bene descritta da Primo Levi quando, nel romanzo del suo ritorno da Auschwitz, racconta di quanto fossero ingordi i superstiti del campo «i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, … facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza»,[3] fino a morirne…

Beato chi sa custodire un vuoto, per sé e per gli altri. Ho avuto una mamma che mi ha nutrito con la sua mancanza. Sapeva che il suo cibo non mi sarebbe bastato e ha permesso che la mia fame diventasse fame d’Altro. Forse qui si inserisce il mio sacerdozio come ricerca e possibilità di un cibo non fatto solo da mani d’uomo. E come passaggio dalla mensa di casa a quella di Dio. Le vocazioni, tutte, arrivano dall’educazione del desiderio, che comincia in cucina. Diversamente ci si ammala. L’anoressica sembra infatti affermare che non c’è cibo o oggetto «capace di riempire la mancanza a essere che il desiderio rivela alla sua radice».[4] Quel suo “mangiare niente” sembra il tentativo estremo di difendere la verità del proprio desiderio, irriducibile a quanto offerto dal mercato.

Ho trovato in Dante Alighieri le parole più adeguate per rispondere a quell’antica fame. Nell’incontro tra Dante e lo spirito di Folchetto di Marsiglia, descritto nel IX Canto del Paradiso (IX, 79-81), il poeta vorrebbe un’intimità tale da auspicare di entrare nel “tu” di Folchetto, «s’io m’intuassi» e, allo stesso modo, vorrebbe che Folchetto entrasse nell’“io” di Dante, «come tu t’inmii». Solo questo consentirebbe una comunione all’altezza di quell’antica fame. Scrive Dante: «perché non satisface a’ miei disii? / Già non attender’io tua dimanda, / s’io m’intuassi, come tu t’inmii». Sono neologismi perfetti per descrivere la speranza di ogni relazione o la ragione di ogni Eucarestia.

«S’io m’intuassi», in Te o Cristo, «come tu t’inmii» … Così sia.

[1] C. GNOCCHI, Cristo con gli alpini, Milano 2003, 63.
[2] Cfr., M. RECALCATI, Il complesso di Telemaco, Milano 2013, 34 e ss.
[3] P. LEVI, La tregua, Torino 2014, 20.
[4] M. RECALCATI, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Milano 2010, 51.