AL DI LA’ DEL MEKONG
La fatica dei corpi è medicina dell’anima

La fatica dei corpi è medicina dell’anima

«Siamo un Paese dove i malati si prendono in carico fino allo sfinimento». Così mi diceva un amico, in un messaggio vocale inviatomi dopo il turno di notte in un ospedale lombardo. Come è diverso qui in Cambogia. Non voglio piangermi addosso. Voglio però esaltare una cultura dell’accesso alle cure per tutti che va custodita, promossa, votata

 

«Dopo questa epidemia la nostra società
non sarà più quella di prima»

 

Trovo che i messaggi vocali siano molto pratici. Ne ricevo molti in questi giorni. Amici. E tra questi alcuni medici. Che la mattina in macchina mentre si recano al lavoro negli ospedali dell’interland milanese, oppure la sera quando smontano, se smontano dal turno, si fanno vivi. Di solito la mattina mi chiedono preghiere per la giornata che inizia, per i pazienti che attendono in ospedale. La sera invece cambiano registro e passano ai numeri della giornata, ai ricoveri, ai trasferimenti, ai metri quadrati sottratti ad altri reparti per allargare la terapia intensiva e garantire l’assistenza ai casi più gravi. È surreale questa comunicazione, la mattina e la sera dall’Italia. Messaggi che arrivano in Cambogia sei ore più avanti, tanto è diverso il fuso orario. Io ascolto, comincio con qualche Ave Maria, tra un colloquio e l’altro, un alunno e l’altro, una curva e l’altra. E provo con l’immaginazione ad essere loro vicino. La preghiera è come uno sguardo che si dilata e abbraccia tutti e tutto. È straordinario poter pregare di questi tempi. Raccogliere tutto, sperare per tutti. «Quando si prega per qualcuno – scriveva Etty Hillesum nel suo Diario – gli si manda un po’ della propria forza». E anch’io gliela mando un po’ della mia forza anzi, non appena la mia, ma quella di Dio.

«Ce la faremo, ne sono sicura!» mi diceva un’amica in un vocale di qualche giorno fa. Lavora in un ospedale vicino a Monza. «Il sistema sanitario da queste parti tiene, è efficente. Se fosse successo altrove, non so!». «In Italia si cerca di guarire tutti. Di aiutare tutti». Mentre ascolto mi chiedo da dove gli arriva questa tenacia, questa forza, questa predisposizione alla cura di tutti, questo culto della salute pubblica e dell’accesso alle cure per tutti. A distanza riscopro un Italia forte, democratica, di popolo. Ci servirà quest’esperienza per auspicare scelte politiche che sappiano custodire questa determinazione alla cura per tutti. Alla salute pubblica e non solo privata. Ma ci vorrebbero ben altre parole. Strategie squisitamente politiche, lungimiranti che possono nascere solo da una visione ampia delle cose. Da una magnanimità che, secondo l’etimo della parola, significa avere un’anima grande. Statisti, amanti della cosa pubblica, che l’Italia ha avuto e che merita ancora. «Tutte le epidemie sono una grandissima occasione. Sono convinto che anche tutti gli sforzi di fantasia che questa epidemia ci costringe a fare, in primis gli insegnati che devono trovare modalità telematiche per non perdere contatto con i loro studenti, saranno una rivoluzione. Dopo questa epidemia la nostra società non sarà più quella di prima» (1).

Speriamo che questa fatica dei corpi, di questi tempi, diventi medicina dell’anima. E infatti, nella preghiera mattutina di lunedì scorso leggevo che «la penitenza del corpo è medicina dell’anima». Che queste restrizioni, chiusi nelle case o nelle corsie degli ospedali, diventino un cammino che spalanca i cuori, perché l’Italia continui ad «essere un Paese dove i malati si prendono in carico fino allo sfinimento». Così mi diceva un amico, dopo il turno di notte in un ospedale lombardo. Questo è il valore della sanità pubblica. Per tutti. Che paghino o che non paghino. Come è diverso qui in Cambogia. Non voglio piangermi addosso. Voglio però esaltare una cultura dell’accesso alle cure per tutti che va custodita, promossa, votata. La si prepara, come è stato in Italia, dall’avvicendarsi di generazioni e generazioni avvezze a ricostruire, sempre e di nuovo, la comunità umana. Vorrei per questo raccomandare profonda gratitudine verso chi si prodiga tutti i giorni o lo ha fatto a suo tempo, generando uno stile, un modus vivendi adeguato, che sa prendersi cura di tutti. Questo modus italiano, come tanti monumenti, dovrebbe essere dichiarato “patrimonio dell’umanità”!

Detto questo non riesco a separare questo ben di Dio da Dio. Dal piglio mistico del dottor Capetti, per esempio, che nella sua bella intervista da conto della passione divina con la quale fa il medico. E parla del destino dei suoi pazienti. «Tutti malati di Aids… qualcuno di loro mi ha scritto “Dottore io non ho paura, quando il Signore mi vorrà chiamare vuol dire che è arrivato il mio momento e io sarò contento di tornare da Lui. La loro malattia ha fatto capire loro qualcosa di più… ». Mi sovviene l’eleganza di un altro medico, quello di Anton Cechov, in Corsia n. 6, che «porta in sé senza troppe parole, (…) il confluire di innumerevoli patimenti (…) ma siede al capezzale di ognuno e vi rimane (…) Egli porta con sé il solo farmaco vero: lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare con noi; il linguaggio discreto e pudico, da gentiluomo, di chi ha imparato a ricordare di continuo, a sé e agli altri, quel che possa valere il dolore quando lo raccolga lo specchio di un amore senz’ombre» (2).

Prendiamo del tempo per ammirare, ora in Italia, questo patrimonio dell’umanità. Ciao!

 

  1. Vale la pena ascoltare quest’intervista al dottor Amedeo Capetti
  2. C. Campo, Gli imperdonabili, Milano 2004, 197

 

Nella foto: l’immagine dell’infermiera di Cremona divenuta in questi giorni il simbolo dell’impegno di tutto il personale sanitario nell’emergenza Coronavirus