Padre Parolari, una vita tra i malati del Bangladesh

Padre Parolari, una vita tra i malati del Bangladesh

Padre Piero Parolari, nel 2015 vittima di un attentato, ha vissuto gran parte della sua missione a fianco delle persone affette da tubercolosi accudite nel Sick Shelter del Pime A Rajshahi. «Volevamo offrire cure di qualità anche ai più poveri», racconta

«Sono solo caduto dalla bicicletta». Con queste parole padre Piero Parolari, 74 anni, oggi parla dell’attentato di cui è stato vittima il 18 novembre 2015 mentre stava andando all’ospedale di Dinajpur, in Bangladesh. Il proiettile che l’ha colpito ha danneggiato il nervo acustico, provocandogli disturbi all’udito, ma è entrato e uscito dal collo senza ledere nessun organo vitale. «Un millimetro un po’ più in là e non sarei qui». E lo sa bene padre Parolari, che prima di diventare prete ha studiato medicina. «Arrivato in Bangladesh la prima volta nel 1985, non volevo saperne di fare il medico, ero venuto per essere missionario». Invece poi le cose andarono diversamente.

Per sedici anni il missionario del Pime, originario di Lecco, ha lavorato nel “sick shelter” (rifugio per malati) di Rajshahi, fondato nel 1980 da padre Faustino Cescato insieme a suor Silvia Gallina, suora di Maria Bambina. «I malati venivano in città a farsi curare, ma non avevano un posto dove stare», spiega padre Parolari. «Alcuni di quelli che arrivavano dai villaggi più remoti dormivano persino per strada». Per cui il centro di Rajshahi nacque per dare la possibilità anche ai più poveri, che non potevano pagare le cure nelle cliniche private, di ricevere terapie ed esami di qualità. Si rivelò fin da subito una soluzione vincente, tanto che i padri del Pime in seguito la replicarono anche in altre missioni. Ancora oggi le suore accompagnano i pazienti a fare le visite e i missionari hanno contatti frequenti con i medici e gli infermieri locali. Nonostante siano religiosi cristiani in un Paese musulmano. «Ci sono stati periodi più complicati, durante i quali precedenti governi non erano a favore delle minoranze – continua il missionario – ma in generale abbiamo sempre avuto un rapporto positivo con gli operatori sanitari e molto spesso abbiamo creato anche legami profondi di reciproco apprezzamento».

Al suo arrivo in Bangladesh, quindi, padre Parolari iniziò a visitare i villaggi abitati perlopiù da indigeni delle aree tribali per seguire nelle cure gli ammalati, insieme a suor Gallina e a padre Gianni Zanchi, che era nel Paese già dal 1975. Fin da subito fu un lavoro di squadra: «Io giravo tra i villaggi, padre Mariano Ponzi­nibbi faceva formazione alle suore che lavoravano nei dispensari, padre Zanchi gestiva il lavoro e suor Silvia era l’elemento carismatico del gruppo. Non era infermiera ma la chiamavano la “Madre Teresa del Bangladesh”». Dopo un po’ di tempo i missionari notarono una categoria di pazienti abbandonata a se stessa: i tubercolotici. «Coloro che avevano ricevuto una diagnosi spesso non portavano a termine la terapia, che al tempo durava un anno. Diventavano malati cronici e nessuno si prendeva più cura di loro».

Anche il governo del Bangla­desh si era reso conto del problema, per cui nel 1987 decise di riunire tutte le organizzazioni non governative che avevano le capacità di avviare un programma di controllo della tubercolosi sul territorio. I missionari del Pime accettarono la proposta e presero parte al programma sotto l’ombrello della Caritas bengalese. Padre Parolari visitava i pazienti: «Ho dovuto imparare a fare l’esame dell’espettorato col microscopio alla luce solare, perché in quegli anni molti villaggi non avevano la corrente elettrica. Oppure, quando chiedevo a che ora venisse la febbre, mi rispondevano indicandomi il punto in cui si trovava il sole a quell’ora, non mi dicevano l’orario preciso». A preoccupare di più il medico e missionario, però, non erano tanto le mancanze infrastrutturali quanto i pazienti cronici, che avevano bisogno di fare radiografie, esami più complessi, ed essere seguiti dal personale sanitario nel percorso di guarigione. Padre Parolari pensò allora di dedicare una sezione del sick shelter ai malati di tubercolosi: «Nel 1990 costruimmo un nuovo centro accanto a quello per malati generici», spiega il missionario, che usa sempre il plurale perché non gli piace «mettersi al centro». Una volta negativizzati, i pazienti potevano restare gratuitamente. «In quegli anni avevamo un ottimo rapporto con l’ospedale pubblico, al quale mandavamo i casi più complicati».

La collaborazione con il governo del Bangladesh durò dieci anni, grazie agli ottimi risultati ottenuti dai missionari. La situazione migliorò ulteriormente dopo l’introduzione nel 1993 di una nuova terapia contro la tubercolosi di sei mesi, chiamata DOTs (acronimo che deriva dall’inglese directly observed treatment, short-course), che indica una somministrazione di farmaci supervisionata e giornaliera. Un sistema che era stato introdotto più di dieci anni prima in Africa da un’altra anima missionaria: Annalena Tonelli. «Non era medico – dice Parolari – eppure riuscì ad attuare un programma pilota dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’amore intelligente arriva prima della scienza e della medicina, questa è la mia teoria».

Ma anche per il missionario di Lecco l’esperienza dello Sick Shelter fu trasformativa: «Intanto, anche dopo tanti anni a contatto con i tubercolotici, non mi sono mai ammalato, e già questo è un grande dono», racconta il sacerdote. «Ma soprattutto, partecipare al programma del governo ci ha dato la possibilità di prenderci cura degli ammalati di ogni fede religiosa. Mettere al centro l’altro e dedicare un’attenzione qualificata anche ai poveri mi ha aiutato a trovare una sintesi tra la figura del medico e quella del missionario. E il fatto che le strutture sanitarie mancassero – prosegue Parolari – mi ha costretto ad ascoltare i pazienti, a conoscere la loro storia, più che se fossi rimasto in Italia».

Un ascolto che i poveri e gli emarginati del Bangladesh non avevano mai ricevuto: «Un vescovo del Bangladesh ci disse che il centro per malati era molto bello ma aggiunse che in Bangladesh l’ascolto dell’ammalato è già una terapia».

Dopo qualche anno di formazione a Roma, padre Parolari venne destinato a Dinajpur, un’altra diocesi, come Rajshahi, fondata in origine dai missionari del Pime. Per qualche strano giro del destino, conosceva già l’ospedale locale: «Nel 1970, quando stavo iniziando a studiare medicina, venni in quello che si chiamava ancora Pakistan Orientale per un viaggio missionario di gruppo. L’esperienza mi convinse a diventare medico e iniziai a prendere i contatti con l’ospedale governativo di Dinajpur, ma da lì a tre mesi scoppiò la guerra» da cui poi nel 1971 nacque l’attuale Ban­gladesh. Un Paese che in anni recenti è stato tormentato dalla minaccia terroristica. Altri cooperanti stranieri erano stati uccisi qualche mese prima che padre Parolari venisse colpito. Il missionario aveva già preso tutte le precauzioni, cambiando tragitto e cercando di mantenere un profilo basso, ma non bastò.

Quando gli spararono, non vide l’attentatore: «In fondo non è così difficile perdonare nel mio caso, non li ho nemmeno visti in faccia», commenta il missionario, che ora, a quasi dieci anni di distanza, dice di non avere più paura. Un sentimento che comunque ha provato anche dopo il suo rientro in Italia: «Mi convinsi a iniziare un percorso di terapia quando mi raggiunse la notizia che un terrorista dell’Isis era stato ucciso dalla polizia a Sesto San Giovanni, nel 2016».  Ma l’attentato in sé, dice il medico-sacerdote,  «mi ha ridonato la vita. Quando oggi prego, le parole assumono un significato ancora più profondo. Credo che il salmo 18 sia quello che meglio si adatta alla mia esperienza: “Mi assalirono nel giorno di sventura, ma il Signore fu mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene”».