AL DI LA’ DEL MEKONG
Tra una «scuola domestica» e l’altra

Tra una «scuola domestica» e l’altra

In Cambogia abbiamo registrato appena 125 casi di malati da Covid19, tutti guariti. Ma le scuole restano chiuse dal 16 marzo. E gli anziani dei villaggi oggi dicono: «Sembra come ai tempi di Pol Pot che ha chiuso subito tutte le scuole con un ordine dall’alto…»

 

Le scuole qui in Cambogia sono chiuse dal 16 marzo 2020. Questa perdurante chiusura in un Paese che non ha registrato vittime da Covid-19 e conta, ad oggi, 125 casi, tutti guariti, sembra una misura precauzionale che con il tempo potrebbe rivelarsi controproducente e generare molti abbandoni scolastici. Attendiamo nei prossimi mesi le solite pubblicazioni con statistiche e raccomandazioni rivolte alla Cambogia sul tema dell’abbandono scolastico, da parte delle zelanti agenzie internazionali e dei loro funzionari, tanti, che osservano ma non toccano. Passano e se ne vanno.

Perché questo è il punto, il con-tatto. Lo sappiamo tutti. Nulla più dell’educazione chiede l’incontro personale e l’impegno di tutti i nostri sensi, senza i quali non si apprende e non si cresce. Le protesi elettroniche e digitali, come ogni protesi, possono aiutare, potenziare, ma tali rimangono, protesi. Artifici per un passo in più che però, nel caso del processo educativo, possono con il tempo spegnerne il fuoco, il gusto, l’efficacia. Per non parlare di chi come noi vive in zone rurali senza energia elettrica e con una copertura di rete saltuaria che fa tartagliare anche gli insegnanti migliori e annoiare gli alunni più volonterosi.

Non v’è dubbio che l’irresponsabilità di tanti comuni cittadini in molte parti del mondo, ha spesso aggravato il trend dei contagi e spinto i governi a imporre misure drastiche, fra tutte la distanza sociale e l’uso della mascherina. E nondimeno, un po’ ovunque, preoccupa una certa ingerenza del potere, unita ad una sistemica incapacità di capire la misura e dar conto di ciò che veramente accade. Continueremo a chiederci se le agenzie internazionali preposte sono davvero sopra le parti nella tutela della salute e del destino dei popoli, o rispondono alle logiche politiche dei loro finanziatori. Continueremo a chiederci se quello stesso zelo con il quale oggi queste agenzie promuovono il distanziamento sociale non possa da subito virare verso il disarmo globale. Continueremo a chiederci se si debba solo chiudere o ad un certo punto, proprio per la salute – mentale! – dovremmo piuttosto ri-aprire, generare lavoro, promuovere luoghi per un dibattito sociale possibile.

In Cambogia, dove vivo, non si potrà solo agire sulle scuole chiudendole, ma sarà molto più lungimirante potenziare il servizio sanitario sul territorio, comune per comune. Obiettivo sempre disatteso da una classe politica più incline a immiserire che a promuovere. A distribuire bonus più che a generare lavoro. Con una popolazione che pure ha delle responsabilità perché spesso si è rivelata immatura e incapace di consociarsi in esperienze di ricerca del bene comune. E quando ci ha provato, superando la tentazione dell’abbuffata, è scattata la censura che ha trasformato quella mascherina necessaria alla salute, in bavaglio necessario allo status quo.

Qui mi sovviene la parola degli anziani che abitano i nostri villaggi e che spesso incontro lungo la via. Molti, per lo più non cattolici, sanno che sono italiano e che il Bel Paese è stato tra i più colpiti dal virus. Ultimamente la discussione con loro si è fatta più accesa, ma non tanto per l’Italia e le sue vittime per le quali spesso mi esprimono il loro cordoglio, quanto per la Cambogia e la chiusura delle sue scuole. «Perché sembra come ai tempi di Pol Pot che ha chiuso subito tutte le scuole con un ordine dell’alto». «Tutte!». Ora come allora, dicono, «a qualcuno non piace l’istruzione». Ora come allora «c’è la Cina con la stessa ideologia». Anche se – spesso incalzo io – a suo tempo gravava sulla Cambogia la polarizzazione dovuta alla “guerra fredda”.

Di fatto, mai come prima, sento cambogiani connettere questi provvedimenti legati alla pandemia, con la loro storia recente. E con nomi altisonanti come Pol Pot. Il peso di tali affermazioni è enorme. Evoca esperienze che nessuno vorrebbe rivivere. E nondimeno questa prolungata chiusura delle scuole, questo ostinato voler mettere le mani sui luoghi della formazione dell’umano, desta preoccupazione e fa riemergere fantasmi interiori tutt’altro che sopiti. Ma attenti bene. Evocare Pol Pot non significa temere ancora spargimenti di sangue, del tutto improbabili, almeno a quei livelli. Nell’immaginario collettivo Pol Pot è piuttosto diventato una figura che evoca l’irrazionalità, l’arbitrarietà del potere, il suo incombere senza spiegazioni, senza cura, tanto soft quanto cinico e acefalo, utilitarista che, se cadi, non ti aspetta.

Quegli anziani sentono questo. Loro non sono politici né sociologi, ma gente comune che ha visto quel potere in azione. E ha pianto i propri genitori, fratelli, sorelle e figli. Sono sopravvissuti che sentono a pelle se chi, come in questo caso, mette le mani sulla scuola, ha in mente la cura o qualcosa d’altro.

Da parte mia, racconto loro delle nostre scuole chiuse, ma riaperte nelle case degli alunni dove a gruppi ci raduniamo per aggirare i divieti di assembramento. Racconto dei nostri insegnanti che corrono da una “scuola domestica” all’altra per insegnare, per educare, per continuare a benedire l’umano che cresce. Dico loro che quelle percezioni non sono altro che la voce di fantasmi passati. E niente più.

Quasi mai però dico che quegli stessi fantasmi tengono sveglio anche me. Di notte.