Covid-19, il mondo che non riapre

Covid-19, il mondo che non riapre

Ieri in India c’è stato il più alto numero di nuovi contagiati in un singolo Paese da inizio pandemia. In Brasile le morti non sono mai state così tante. E persino la Papua Nuova Guinea – a lungo rimasta quasi indenne dalla pandemia nel cuore dell’Oceania – ha superato i 10 mila casi di coronavirus. Per questo la Fondazione Pime rilancia il Fondo S140 “Emergenza Coronavirus nel mondo”. Per dire: no, con il Coronavirus non è affatto finita per tutti.

 

Sospirate riaperture e ripartenza: apri qualsiasi giornale e non si parla d’altro. Già, ma per chi? Da settimane il mondo è sparito nei nostri racconti del Coronavirus, fatta eccezione per tre Paesi: Israele, Stati Uniti e Gran Bretagna. Quelli che sono “più avanti”. Ci sono voluti gli ospedali che in Brasile devono intubare i pazienti senza più anestetici e l‘India dove a New Delhi letteralmente di Covid-19 oggi si muore per strada per farci venire il dubbio che forse per qualcuno la pandemia non sia agli sgoccioli. Eppure sono notizie che sembrano parlare d’altro, quasi la loro fosse una malattia diversa rispetto a quella con cui abbiamo fatto i conti noi.

Invece i numeri parlano chiaro. Ieri il mondo ha toccato un nuovo triste record: per la prima volta dall’inizio dell’emergenza Covid-19 un Paese, in questo caso l’India, ha superato la soglia dei 315mila nuovi casi registrati in un solo giorno. Il Brasile da giorni conta più di 3mila morti ogni 24 ore, un livello mai visto nei mesi precedenti che pure avevano già visto il Coronavirus colpire il Paese in maniera molto dura. E sempre ieri persino la Papua Nuova Guinea – a lungo rimasta praticamente indenne dalla pandemia nel cuore dell’Oceania – ha superato quota 10mila casi di infezioni da Covid-19 registrate.

In gran parte del mondo non è affatto finita: lo dicono le statistiche. Ma, ancora di più, lo ascoltiamo dalle notizie che ci arrivano dai nostri missionari sul campo. Fabio Mussi, missionario del Pime in Camerun, ci dice per esempio che “negli ultimi 2 mesi i casi di mortalità da Covid-19 sono aumentati in modo molto rapido”. Del resto di missionari nel solo ultimo mese il Pime ne ha anche pianti due a causa della pandemia. Dom Pedro Zilli è morto in Guinea Bissau, un Paese dove a guardare solo i dati ufficiali i contagi da Covid-19 sarebbero pochissimi. Ma che attendibilità hanno i numeri in realtà dove le strutture sanitarie non sono in grado di fare screening di massa? Padre Sandro Brambilla, invece, è stato portato via dal Coronavirus a Paranaque nell’immensa periferia di Manila. Ed è tutta l’Asia in queste settimane a essere alle prese con la nuova ondata: dalla Thailandia alla Cambogia, dal Bangladesh al Giappone.

Tutto questo succede mentre la speranza nei vaccini è riservata solo a una piccola parte del mondo. Il Covax – il programma multilaterale che avrebbe dovuto garantire un accesso anche ai Paesi poveri per questi beni così preziosi – sta naufragando sotto la spinta degli interessi nazionali. Questi Paesi dove vive una grande parte della popolazione mondiale avrebbero dovuto ricevere 237 milioni di dosi di vaccino entro il 31 maggio, per poter vaccinare almeno una piccola fetta della propria gente. A oggi ne hanno ricevuti appena 40,5 milioni, meno del 20% rispetto a quanto scritto nei (loro) contratti con le aziende farmaceutiche che per qualche strano motivo non hanno la stessa dignità di quelli per cui ci stracciamo le vesti. L’aspetto più grave è che mentre in Europa le consegne delle dosi – pur con tutte le polemiche – stanno accelerando, nel Sud del mondo sta avvenendo esattamente il contrario: con l’India costretta dall’emergenza a dirottare pressoché tutta la sua produzione per il mercato interno, al Covax da qualche settimana arrivano solo piccole consegne da poche decine di migliaia di dosi alla volta. Interi Stati – di fatto – ricevono meno vaccini di una regione italiana.

Ed è in questo quadro così preoccupante che la Fondazione Pime ha deciso in questi giorni di rilanciare il Fondo S140 “Emergenza Coronavirus nel mondo”. Un anno fa – quando l’Italia era nel pieno della prima ondata – i missionari furono tra i primi a raccontare che anche nel resto del mondo c’era tanta sofferenza a causa di questa malattia. E furono in molti a rispondere con generosità a quell’appello. Oggi tornano a stendere la mano per dire: no, in tanti posti non è affatto finita. C’è chi con questa malattia dovrà fare i conti ancora per molto tempo. Ricordarlo è un piccolo gesto per non rassegnarsi a un mondo che lascia i poveri per ultimi. E provare, almeno, a stare loro accanto.

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