AL DI LA’ DEL MEKONG
Morire prima del contagio

Morire prima del contagio

Che ce ne facciamo di questo tipo di sicurezza, se su tutti gli altri fronti, lavoro-scuola-famiglia-viabilità-sanità non-solo-covid, la nostra vita non ha niente di sicuro?

 

«La nuda vita – e la paura di perderla –
non è qualcosa che unisce gli uomini,
ma li acceca e separa» G. Agamben (1)

 

«Stay home – enjoy life to prevent Covid-19». Ho appena ricaricato il mio cellulare, con un dollaro. Qui in Cambogia uso Metfone, compagnia telefonica i cui servizi e le cui promozioni mi soddisfano. Dopo la ricarica mi sono stati accreditati 30 dollari di bonus da consumare entro oggi. Un messaggio, prima in lingua Khmer poi ripetuto in Inglese, mi ha suggerito, «stai a casa, goditi la vita e previeni il Covid-19». Cioè, stai attaccato al telefonino fino alla fine del bonus. Non credo obbedirò al suggerimento. Ma cosa volete che faccia un ragazzino, lasciato a casa da scuola e ramingo tra le campagne cambogiane?

Eppure la Cambogia non ha registrato alcun morto da Covid-19. A dirla tutta, la prima ragione di morte, di questi tempi e da queste parti, è costituita dagli incidenti stradali. Se intervenissero con lo stesso zelo dimostrato nel prevenire il virus, rinnovando per esempio la rete stradale, fatiscente e insufficiente ad assorbire il traffico crescente, avremmo come risultato la “messa in sicurezza” non solo di aule scolastiche e aereoporti, ma di intere provincie! Per non parlare poi dei mezzi in circolazione. Accanto a lussuosi veicoli di ultima generazione – Rolls Royce per intenderci, che storpiato in cambogiano fa ror-roi, o a Toyota e Lexus – i mezzi in circolazione sono per lo più vecchi, usurati e inadatti all’uso per cui vengono usati. Caricati oltre ogni buon senso, nessuno se ne cura. Spesso senza catarifrangenti o adeguata illuminazione, questi rottami ambulanti sono tra le cause principali degli incidenti e nondimeno circolano indisturbati lungo strade piene di buche, guidati da giovanissimi ragazzi che forse non hanno nemmeno l’età per guidare mezzi così pesanti. Ma tant’è!

Quanto a zelo, se però trovano un asintomatico a Phnom Penh, proveniente (mai dalla Cina e sempre) da ovest, apriti cielo, mettono l’intero Paese in stato di allerta. Perché? Le autorità sono forse contente con questo virus? Ne hanno forse bisogno perché con esso hanno finalmente un motivo valido per procedere? Salvo poi chiamarla “legge per la sicurezza nazionale”, per la quale anche uno starnuto sembra ormai costituire una potenziale minaccia alla stabilità sociale. Che ce ne facciamo di questo tipo di sicurezza, se su tutti gli altri fronti, lavoro-scuola-famiglia-viabilità-sanità non-solo-covid, la nostra vita non ha niente di sicuro?

Con profondo rispetto per le vittime, non si tratta di scadere nel negazionismo e nemmeno nel complottismo. Sono estremi lusinganti, ma ad alto rischio ideologico. Vorrei piuttosto mettere a tema la paura. Di una mamma di Milano, per esempio, «che non potrà portare il bambino a scuola se manifesta sintomi come il mal di gola». In Italia, l’inverno è prossimo. Le classiche e simpatiche malattie di stagione per le quali ogni nonna ha sviluppato una sua farmacopea, possono invece diventare un incubo e scatenare una caccia all’untore.

Ieri ho visitato una comunità religiosa a Phnom Penh. Una delle suore, appena rientrata è in quarantena. Alla fine della quale dovrebbe tornare nella sua comunità di lavoro, sita in un’altra provincia. Ma di là hanno già espresso qualche riserva sul suo reintegro. Mi chiedo dunque, che fare con questa paura che dilaga persino in luoghi tradizionalmente generosi e aperti, un tempo, anche al bacio dei lebbrosi? Che fare con quella paura che non si placa nemmeno di fronte a certificati di sana e robusta costituzione? Quella paura che si allea a paure pregresse e fagocita tutto, amori, amicizie, fedi. E rintraccia in ogni altro essere umano un possibile untore dal quale prendere le distanze. È innegabile, «l’attuale emergenza sanitaria può essere considerata come il laboratorio in cui si preparano i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità», scrive Giorgio Agamben. Che non esita a chiedersi «se una tale società potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del volto, dell’amicizia, dell’amore possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto fittizia».

Dobbiamo intendere la giusta misura. Perché il delirio dei burocrati non mortifichi il crescere della fiducia reciproca in quanto membra gli uni degli altri. Se si eleva la salute a criterio di fondo e la biosicurezza a logica politica, allora anche la paura, alimentata da un progressivo e calcolato estraniarci gli uni dagli altri, avrà il sopravvento. Con quell’astuzia acefala tipica dei sistemi antidemocratici, bravi nel presentare «l’assoluta cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale come la massima forma di partecipazione civica», come se ogni contatto fosse ormai contagio. Complici quei cittadini pronti solo a dare colpe.
Qui «non il ragionamento, ma la memoria – il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo –», può aiutarci a non morire prima del contagio.

 

  1. Per leggere i vari interventi del filosofo sulla pandemia da Covid-19, vedi qui

 

Foto: Flickr /CDC global