La Gerusalemme che non si rassegna all’odio

La Gerusalemme che non si rassegna all’odio

Diventano ogni giorno più terribili le notizie dell’intifada. Eppure anche in queste ore di follia ci sono palestinesi e israeliani che provano a incontrarsi e a mettersi ciascuno nei panni dell’altro. Persino coloni e palestinesi che si abbracciano nel dolore. Le storie di questi uomini e donne coraggiose, da leggere prima di sparare (da lontano) giudizi che non fanno altro che moltiplicare l’odio

 

Da più di una settimana, ormai , ascoltiamo le notizie di sangue che continuano ad arrivare da Gerusalemme, ogni giorno più cruente. Stavolta, però, sembrano non scuotere il mondo più di tanto. Troppi conflitti aperti. E poi ci abbiamo fatto l’abitudine ad arabi ed ebrei che si uccidono, anche se vivono in una terra che amiamo chiamare santa. Non ci scuotono nemmeno quando – come accaduto l’altro giorno – l’attentatore palestinese e la vittima israeliana sono due tredicenni. Isacco, Ismaele e un coltello: l’eterno ritorno della storia di Abramo pronto a sacrificare suo figlio. Il racconto che per gli ebrei ha Isacco per protagonista, mentre per i musulmani è Ismaele, il figlio di Agar, quello che il patriarca sarebbe disposto a sacrificare per ubbidire alla volontà di Dio. Solo che qui – a differenza dei racconti della Bibbia e della tradizione islamica – non si intravedono all’orizzonte angeli in arrivo a fermare la mano col coltello prima che colpisca.

Dopo le pietre, i kamikaze sugli autobus, i muri, i razzi, c’è qualcosa di primordiale in questa nuova intifada che scuote Gerusalemme. Un odio che si materializza nel corpo a corpo. Un odio cresciuto sotto la cenere in questi anni, giorno dopo giorno, nelle tante situazioni quotidiane in cui un conflitto irrisolto e sempre più osservato con sguardo annoiato dal mondo si trasforma in una scusa per non vedere l’altro. Per spogliarlo della sua dignità di persona, prima ancora che di una terra, di una casa, di un futuro.

La separazione è stata la regola che in questi anni a Gerusalemme si è seguita per «gestire» il conflitto. Strada comoda, perché permette a ciascuna delle due parti di non vedere le proprie contraddizioni e continuare a riversare ogni responsabilità solo su chi sta dall’altra parte (“il terrorismo”, “l’occupazione”, “Netanyahu”, “Hamas”, “Abu Mazen”…). Le stesse risposte di queste ore all’ondata di nuove violenze vanno in questa direzione: l’ultima idea è quella di isolare (con nuove barriere?) i quartieri arabi di Gerusalemme Est; che sono però gli stessi nei quali proprio la costruzione di sempre nuove case abitate da ebrei ha fatto montare l’onda dei risentimenti. Le contraddizioni di questo conflitto, appunto.

Separare, isolare, allontanare; adesso persino eliminare fisicamente: sono le reazioni istintive di fronte alla violenza. Eppure non sono l’unica strada possibile. E a dimostrarlo non è tanto gente che teorizza da lontano o condivide immagini pacifiste (un po’ troppo finte) sui social network. Sono persone che questo conflitto lo vivono sulla loro carne e spesso hanno pagato anche un prezzo altissimo alla violenza. Eppure si ostinano anche in queste ore a ripetere che l’unica strada è provare a mettersi nei panni dell’altro.

Ad esempio lo hanno fatto, sabato sera a Jaffa (l’antica città araba divenuta un tutt’uno con Tel Aviv e non certo immune dalle tensioni di questi giorni), i genitori del Parents Circle, l’associazione che da vent’anni vede insieme israeliani e palestinesi accomunati dalla tragedia di aver perso un proprio caro a causa del conflitto. Si sono dati appuntamento in piazza per ascoltare ciascuno lo stato d’animo dell’altro. «Vogliamo che gli israeliani sappiano che ci sono palestinesi con cui si può parlare e che i palestinesi sappiano che ci sono israeliani con cui si può parlare. Uccidere ed essere uccisi non è il nostro destino», hanno spiegato. E andranno avanti a incontrarsi lì finché quest’ondata di violenza non finirà.

Ma è un parlarsi che non è fine a se stesso: al contrario, entra dentro le questioni molto concrete che infiammano gli animi in queste ore. Lo si coglie appieno leggendo il comunicato diffuso da un’altra realtà storica del dialogo israelo-palestinese, Nevé Shalom/Wahat al Salam, il villaggio sulla collina fondato negli anni Settanta dal domenicano padre Bruno Hussar, dove arabi ed ebrei vivono insieme in condizione di parità. «Condanniamo il ciclo di violenza e chiediamo a entrambe le parti di porvi fine – hanno scritto -.Sollecitiamo il governo di Israele e la leadership politica a mostrare responsabilità e capacità di controllo in questi giorni difficili nel tutelare i luoghi santi per ciascun popolo. Condanniamo la politica del “grilletto facile” che sta venendo applicata verso i cittadini palestinesi di Israele e i palestinesi nei Territori occupati. L’esperienza del vivere insieme in dignità e uguaglianza condotta negli ultimi quarant’anni nel villaggio di Neve Shalom/Wahat al Salam ci ha insegnato che vivere insieme in pace è possibile. Per porre fine alle ostilità e allo spargimento di sangue, l’occupazione deve cessare e ci deve essere piena uguaglianza tra i due popoli».

Accanto a queste esperienze di cui tante volte si è parlato, ci sono però anche sigle nuove, che magari spingono il dialogo persino dove sembrerebbe impensabile. Una delle più recenti che ho scoperto è Roots, un gruppo che prova a far incontrare tra loro addirittura i coloni con i palestinesi che abitano nei villaggi vicini. Un testo fortissimo è stato pubblicato in queste ore da uno dei suoi promotori, il rabbino Hanan Schlesinger, sul sito di Rabbis Without Borders, un’associazione rabbinica impegnata a promuovere la comprensione al di là di ogni barriera. Rav Schlesinger, che vive in un insediamento del Gush Etzion, racconta di un incontro tenuto nella zona di Betlemme proprio in queste ore in cui la rabbia è al culmine da entrambe le parti. Un incontro avvenuto in un clima teso, con entrambi i gruppi a raccontare minacce fisiche gravissime e le ferite ancora fresche sulla pelle propria o di alcuni amici. Ma era troppo importante incontrarsi comunque. «Alla fine ci siamo abbracciati – racconta rav Schlesinger -. È stato un momento difficile, ma anche un po’ catartico. Sappiamo tutti che molti moriranno nelle prossime settimane e nei prossimi anni. Ma ve lo voglio dire: noi, i coloni e i palestinesi di Roots, continueremo a cercare insieme il bene comune. Non c’è altra strada».

Quanto contano queste voci? Sono solo una minoranza di inguaribili ottimisti? Rispondo con una piccola notazione personale: ho cominciato la mia ricerca di questo tipo di storie in un periodo molto simile a queste giornate, gli anni della Seconda intifada (2000-2004). Volevo capire dove fossero finite nel mezzo della violenza tutte quelle belle esperienze di incontri tra israeliani e palestinesi che erano nate negli anni di Oslo, gli anni della speranza nel processo di pace. Temevo che fossero state spazzate via. Invece proprio allora mi accorsi di quanto – sotto la violenza – fossero più vive che mai. E con coraggio lottassero per mantenere viva una speranza di pace anche mentre tutto sembrerebbe andare nella direzione opposta.

Adesso siamo ripiombati nella stessa situazione. E loro sono ancora lì, in prima linea, a dirci che un’altra strada è possibile. Fanno quello che papa Benedetto nel suo viaggio in Terra Santa nel 2009 indicava come il modello vero dell’operatore di pace: essere come Mosé, capaci di indicare la Terra promessa pur sapendo che potrai vederla solo da lontano. La pace non è vicina, lo sanno benissimo – loro – che i discorsi sui “due popoli e due Stati” oggi sono solo chiacchiere. Eppure vanno avanti a incontrarsi. Ricordiamoci di loro in queste ore. Prima di sparare – da lontano e con leggerezza – sentenze che, dando per ineluttabile l’odio, non fanno altro che moltiplicarlo.