AL DI LA’ DEL MEKONG
Per il battesimo dei nostri frammenti

Per il battesimo dei nostri frammenti

Quando le ho chiesto come stava, avrebbe potuto rispondermi in tanti modi. In situazioni simili anche qui in Cambogia la rabbia, il risentimento, la delusione possono avere l’ultima parola. Lei invece, senza figli e senza soldi, ha scelto un’altra parola: «È la mia croce, padre».

 

«(…) possano le mie mani raccontare un limpido cielo
fino a risorgere e infine tradurre in parola
ciò che di bello quest’ostinata donna tace»[1]

 

Sono passati ormai dieci giorni dacché l’ho incontrata e non riesco a dimenticarla. Il ricordo di lei sopraggiunge di notte quando fatico a dormire. Viene quando sono solo, quando guido o prego o penso. Viene con il suo sorriso e con quelle parole, pronunciate con una tale purezza, da avermi invaso il cuore. «È la mia croce, padre».

Ora ne scrivo perché abbia giustizia, perché le sia riconosciuto quel merito che non sa di avere né cerca, ma che io voglio attribuirgli perché mi ha insegnato d’un colpo a fare quello che Mario Luzi chiama «il battesimo dei nostri frammenti», quando per l’incanto della fede nella forza del Verbo «che crea e contiene ogni cosa, Verbo segreto di ogni parola»,[2] il poeta trasforma l’enigma dell’uomo in kerigma di Dio.

S’era confessata all’inizio della Quaresima portando la sua fatica, la sua croce. Quella di essere sposa di un uomo malato da anni, bisognoso di dialisi ogni tre giorni, con il quale purtroppo non ha avuto la grazia dei figli e dalle cui mani probabilmente ha ricevuto più botte che carezze. Ebbene, con lei e grazie a lei quest’anno sono entrato nella Passione di Gesù più consapevole, più grato, più salvato.

L’ho incontrata la scorsa domenica delle palme. Avevamo letto la Passione di Gesù per intero e dopo Messa, nel vederla già correre al capezzale del marito, le avevo chiesto come stava. Mesi fa mi avevano detto che per una seduta di dialisi le occorrevano circa duecento dollari. Il sistema sanitario cambogiano non provvede a simili e altre terapie. Ci si deve arrangiare, anche per arrivare in capitale dove solo si può trovare l’apparecchiatura per la dialisi. In simili situazioni cerchiamo di intervenire, ma i soldi non bastano mai. In questo caso poi, ai disagi esterni si sommano quelli interni: il brutto carattere del marito, incapace di essere affettuoso e socievole, ha dato ai parenti di lui un alibi sufficiente per lavarsene le mani.

Quando le ho chiesto come stava, avrebbe potuto rispondermi in tanti modi. In situazioni simili la rabbia, il risentimento, la delusione possono avere l’ultima parola. Lei invece, senza figli e senza soldi, ha scelto un’altra parola. «È la mia croce, padre». È croce quel marito, la sua malattia, le sue mani pesanti. È croce la nostra stessa natura, il nostro peccato, la nostra violenza. I nostri amori malati. Le nostre guerre. È croce anche il lavoro non degno, il salario non sufficiente o anche solo l’abitare distanti dalla capitale Phnom Penh. È croce quel non avere soluzioni se non, appunto, «la parola della croce» (1 Cor 1,18).

Niente di nuovo verrebbe da dire. Eppure quelle parole unite a quel volto di ancor giovane donna, in quella domenica d’aprile, dopo aver letto la Passione di Gesù per intero, hanno rimesso insieme i frammenti di una vita, la mia e la loro, che altrimenti impazzirebbe se non vi fosse «la parola della croce» a dare un nome al dolore d’ogni specie. «Dire “croce” al dolore dell’uomo – scrive don Giovanni Moioli – vuol dire interpretarlo da cristiani, metterlo in rapporto con la croce di Gesù … riconoscere la possibilità di un senso».[3] E così provare a passare, attraverso la fede, dal frammento al fondamento. «C’era, sì, c’era – ma come ritrovarlo – si chiede Mario Luzi – quello spirito nella lingua / quel fuoco nella materia. / Chi elimina la melma, chi cancella la contumelia?».

Sono state per me quelle parole, quella donna, insieme a quella Passione proclamata, il «punto verginale»[4], lo «spirito nella lingua … il fuoco nella materia», per cui ho riscoperto la somiglianza tra quel dolore e quello di Cristo. Solo allora – continua Luzi – per quanto «sepolto nelle rocce, / rocce dentro montagne / di buio e grevità – così quasi si estingue, / così cova l’incendio / l’immemorabile evangelio …».

«È la mia croce, padre». Quanto amore verginale in queste parole. Non tanto per la sua e nostra improbabile coerenza o perfezione morale, quanto per il profondo sentire d’essere in quel «punto verginale» che è Cristo stesso, in quel «centro più profondo e più inesplorato, il più originale ed operante di tutto il cristianesimo». È lì, in Cristo, che «ogni stilla di sofferenza umana e di pianto acquista valore soprannaturale di redenzione e di Grazia».[5]

Se da queste parti il dolore e la sciagura vengono spesso intese come l’espiazione obbligata di una colpa passata, di un Karma, la Passione e la Pasqua di Gesù possono suggerire un’inedita e divina compagnia. Non subito, non sempre: ci vuole una donna così…

«Possano le mie mani raccontare un limpido cielo / fino a risorgere e infine tradurre in parola / ciò che di bello quest’ostinata donna tace». Buona Pasqua!

[1] R. DAPUNT, La terra più del paradiso, Torino 2008, 36.
[2] D. M. TUROLDO, Mentre il silenzio fasciava la terra.
[3] G. MOIOLI, La parola della croce, Milano 1987, 53.
[4] C. GNOCCHI, Pedagogia del dolore innocente, Milano 2016, 40.
[5] C. GNOCCHI, 41.